Le scelte artistiche di Carlo di Borbone, orientate verso un classicismo di marca romana, insieme alla scomparsa dei protagonisti indiscussi del primo Settecento (Vaccaro nel 1745 e Sanfelice nel 1748) portarono, alla metà del secolo, al predominio assoluto degli architetti “di importazione”. Ferdinando Fuga (dal 1748) e Luigi Vanvitelli (dal 1750) avrebbero dominato la scena artistica partenopea del secondo Settecento contendendosi, con una rivalità senza esclusioni di colpi, le commesse più importanti, non solo reali ma anche della nobiltà più in vista all’epoca. Sullo sfondo dell’architettura ufficiale di corte continuò, operosa e senza clamori, l’attività di una miriade di artefici che sono rimasti lungamente in ombra e che solo negli ultimi anni la storiografia sta riscoprendo. Architetti il cui linguaggio andava riannodandosi, senza soluzione di continuità, ai modi e agli stilemi della tradizione del primo Settecento napoletano, traghettati, non senza apporti innovativi, nella seconda metà del secolo. Proprio per la vicinanza del loro linguaggio al primo Settecento, nel corso degli anni, molte loro opere sono state attribuite erroneamente ora a Sanfelice ora a Vaccaro. Tra costoro, insieme a Niccolò Tagliacozzi Canale, ai Buonocore, ai de Blasio, rientrano a buon titolo anche Luca e Bartolomeo Vecchione, sulla cui attività, svolta tra gli anni 30 e gli anni 70 del Settecento, intende soffermarsi il saggio. Come gli altri poc’anzi menzionati, essi appartennero a una famiglia che, da più generazioni, lavorava nel campo dell’edilizia. I genitori avevano affiancato, con la loro impresa edile, i grandi Maestri del primo Settecento. Proprio in questi cantieri mossero i primi passi i due fratelli, elevando poi la loro condizione da artigiani ad architetti, ma mantenendo sempre saldo, grazie alle origini, il contatto col fare, col plasmare la materia – legno, stucco, pietra, marmo – soggiogandola al disegno dell’architettura e facendo di questa attenzione materica la cifra distintiva della loro attività edilizia.

L’altro volto dell’architettura nella Napoli borbonica del secondo Settecento. L’attività di Luca e Bartolomeo Vecchione tra tradizione e innovazione

Maria Gabriella Pezone;
2022

Abstract

Le scelte artistiche di Carlo di Borbone, orientate verso un classicismo di marca romana, insieme alla scomparsa dei protagonisti indiscussi del primo Settecento (Vaccaro nel 1745 e Sanfelice nel 1748) portarono, alla metà del secolo, al predominio assoluto degli architetti “di importazione”. Ferdinando Fuga (dal 1748) e Luigi Vanvitelli (dal 1750) avrebbero dominato la scena artistica partenopea del secondo Settecento contendendosi, con una rivalità senza esclusioni di colpi, le commesse più importanti, non solo reali ma anche della nobiltà più in vista all’epoca. Sullo sfondo dell’architettura ufficiale di corte continuò, operosa e senza clamori, l’attività di una miriade di artefici che sono rimasti lungamente in ombra e che solo negli ultimi anni la storiografia sta riscoprendo. Architetti il cui linguaggio andava riannodandosi, senza soluzione di continuità, ai modi e agli stilemi della tradizione del primo Settecento napoletano, traghettati, non senza apporti innovativi, nella seconda metà del secolo. Proprio per la vicinanza del loro linguaggio al primo Settecento, nel corso degli anni, molte loro opere sono state attribuite erroneamente ora a Sanfelice ora a Vaccaro. Tra costoro, insieme a Niccolò Tagliacozzi Canale, ai Buonocore, ai de Blasio, rientrano a buon titolo anche Luca e Bartolomeo Vecchione, sulla cui attività, svolta tra gli anni 30 e gli anni 70 del Settecento, intende soffermarsi il saggio. Come gli altri poc’anzi menzionati, essi appartennero a una famiglia che, da più generazioni, lavorava nel campo dell’edilizia. I genitori avevano affiancato, con la loro impresa edile, i grandi Maestri del primo Settecento. Proprio in questi cantieri mossero i primi passi i due fratelli, elevando poi la loro condizione da artigiani ad architetti, ma mantenendo sempre saldo, grazie alle origini, il contatto col fare, col plasmare la materia – legno, stucco, pietra, marmo – soggiogandola al disegno dell’architettura e facendo di questa attenzione materica la cifra distintiva della loro attività edilizia.
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