Il governo mussoliniano guardò con attenzione verso l’Uruguay, paese che ospitava un nucleo nutrito di italiani e di loro discendenti, e con il quale poteva, pertanto, prevedersi un’intensificazione delle relazioni politico-economiche e ‘spirituali’. Di certo l’Uruguay, per dimensioni, volumi di scambio e peso politico, non fu centrale nelle mire del regime nel subcontinente, tuttavia, va segnalato che il caso uruguaiano presentò delle peculiarità, come la consolidata prassi democratica, il parlamentarismo e un’avanzata legislazione sociale, che non sempre il governo di Roma riuscì a comprendere e, soprattutto, a superare, specie negli anni Venti. Inoltre, la collettività italiana, sebbene numerosa, era ricca di tradizioni politiche (dal repubblicanesimo all’anarchismo) che poco e male si conciliavano con il fascismo. Durante i primi dieci anni di vita di quest’ultimo, quindi, i rappresentanti del regime mussoliniano tentarono lentamente di migliorare gli scambi commerciali e i rapporti politico-diplomatici bilaterali e provarono a fascistizzare la comunità peninsulare, con alterne (e scarse) fortune. Per raggiungere tale obiettivo, a cavallo degli anni Venti e Trenta, la diplomazia italiana ritenne di poter sfruttare la crisi istituzionale (ed economica) nella nazione latinoamericana, il contestuale aumento del prestigio del fascismo sul piano internazionale, nonché l’interesse con cui la classe politica locale guardò all’esempio dell'Italia fascista. L’arrivo, poi, dell’ambasciatore Serafino Mazzolini, e la svolta autoritaria del 31 marzo 1933 in Uruguay, sembrarono poter indirizzare definitivamente le relazioni italo-uruguaiana (e in parte la fascistizzazione delle istituzioni etniche) verso una direzione gradita al fascismo. Tuttavia, tale aspettativa si sarebbe rivelata infondata, nonostante una maggiore – seppur breve - sintonia tra i due paesi.

Guardando l’altra riva del Río de la Plata. Le relazioni politico-diplomatiche tra Italia e Uruguay nei primi dieci anni del regime fascista (1922-1933).

Valerio Giannattasio
2019

Abstract

Il governo mussoliniano guardò con attenzione verso l’Uruguay, paese che ospitava un nucleo nutrito di italiani e di loro discendenti, e con il quale poteva, pertanto, prevedersi un’intensificazione delle relazioni politico-economiche e ‘spirituali’. Di certo l’Uruguay, per dimensioni, volumi di scambio e peso politico, non fu centrale nelle mire del regime nel subcontinente, tuttavia, va segnalato che il caso uruguaiano presentò delle peculiarità, come la consolidata prassi democratica, il parlamentarismo e un’avanzata legislazione sociale, che non sempre il governo di Roma riuscì a comprendere e, soprattutto, a superare, specie negli anni Venti. Inoltre, la collettività italiana, sebbene numerosa, era ricca di tradizioni politiche (dal repubblicanesimo all’anarchismo) che poco e male si conciliavano con il fascismo. Durante i primi dieci anni di vita di quest’ultimo, quindi, i rappresentanti del regime mussoliniano tentarono lentamente di migliorare gli scambi commerciali e i rapporti politico-diplomatici bilaterali e provarono a fascistizzare la comunità peninsulare, con alterne (e scarse) fortune. Per raggiungere tale obiettivo, a cavallo degli anni Venti e Trenta, la diplomazia italiana ritenne di poter sfruttare la crisi istituzionale (ed economica) nella nazione latinoamericana, il contestuale aumento del prestigio del fascismo sul piano internazionale, nonché l’interesse con cui la classe politica locale guardò all’esempio dell'Italia fascista. L’arrivo, poi, dell’ambasciatore Serafino Mazzolini, e la svolta autoritaria del 31 marzo 1933 in Uruguay, sembrarono poter indirizzare definitivamente le relazioni italo-uruguaiana (e in parte la fascistizzazione delle istituzioni etniche) verso una direzione gradita al fascismo. Tuttavia, tale aspettativa si sarebbe rivelata infondata, nonostante una maggiore – seppur breve - sintonia tra i due paesi.
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11591/424457
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