Oltre 5000 anni insieme a un rudimentale modo di scrivere gli eventi sopra una tavoletta d’argilla plastica, di legno o una lastra di pietra, ne esordì pure un altro sintetico di descrivere una struttura architettonica: la planimetria. Testimone di entrambi i generi un singolare reperto archeologico, scoperto tra il 1898-99, e risalente alla fine del IV millennio a.C. e conservato nel Museo del Cairo: la cosiddetta tavolozza di Re Narmer. La lastra di siltite verdastra, tagliata in forma di scudo (42x64 cm), in perfetto stato di conservazione, appare riccamente decorata su entrambe le facce. Oggetto non raro, servendo da supporto per i colori da trucco impiegati dagli Egizi, è tuttavia unico per le informazioni che tramanda insieme ai celebri antesignani geroglifici. Nel registro più basso della faccia anteriore, si distingue, infatti, la pianta di una fortificazione, rappresentazione planimetrica che se non fu la prima della Storia, è però a tutt’oggi la prima del genere pervenutaci, forse suggerita dai resti degli edifici ‘rasi al suolo’ durante le coeve guerre. Una sorta di scrittura oggettiva, convenzionale e ricca di informazioni, che da allora non muterà più nell’ambito del disegno progettuale, tant’è che i dati desumibili da quella rappresentazione trovano ampio riscontro nei diversi ruderi di costruzioni difensive similari poste a protezione della frontiera meridionale dell’Egitto. Relativamente semplice perciò procedere sulla loro falsariga alla ricostruzione grafica e virtuale della fortificazione, individuandone i criteri informatori e le linee per eventuali restauri delle anzidette similari. Allo scopo la fase prodromica per lo studio di quell’antesignana pianta è il suo dimensionamento, operazione che implica l’individuazione di un particolare elemento di grandezza. Osservando l’incisione a discreto ingrandimento, risalta, lungo il perimetro esterno della fortificazione, un parapetto posto sul bordo dello spalto, quasi certamente frastagliato, che stando alle numerose costruzioni in mattoni crudi e di fango, e più ancora alle necessità difensive, non doveva superare lo spessore di 100-120 cm, spessore che diviene perciò la nostra fondamentale unità di misura, ovviamente con una tolleranza del 20% non inficiante l’approfondimento architettonico e strutturale. Nessuna indicazione si può desumere per l’altezza che deve inevitabilmente ricavarsi solo per analogia dai frammenti ancora integri di fortificazione coeve. Superata tale fase s’impone quella della interpretazione della logica difensiva sottesa che, per il lentissimo evolversi delle procedure ossidionali dell’antichità, non può ritenersi limitata a quel preciso ambito cronologico ma si protrae per lo meno per altri due millenni ancora favorendo l’indagine e fornendo a sua volta una chiave d’interpretazione per l’intera tipologia. In linea di larga massima la fortificazione si presenta con impianto rettangolare scandito da dodici torri di cui quattro innestate ai vertici, originando perciò una disposizione che ne vede cinque sui lati lunghi e tre sui corti. Il fin troppo breve interasse che le separa, induce a ritenerle, piuttosto dei contrafforti, delle torri propriamente dette, soluzione abbastanza frequente nell’architettura dell’antico vicino oriente, per la scarsa saldezza delle mura di fango. Sicuramente torri erano, invece, le quattro poste al centro di ciascun lato, due delle quali munite di grosse piombatoie centrali, poste probabilmente ad interdizione del sottostante varco d’ingresso, il punto più debole della struttura. La sapiente illuminazione adottata nella ripresa fotografica mette in evidenza la presenza di una scarpa continua ai piedi delle mura, inclinata di 45°, soluzione che costituisce un espediente canonico dell’architettura militare utilizzato per incrementare la stabilità dell’opera, provocando, al contempo, il rimbalzo orizzontale delle pietre lasciate cadere dall’alto, con esiti immaginabili.

Le misure del castello San Felice a Cancello/The measures of the castle San Felice a Cancello

ROSSI, Adriana
2015

Abstract

Oltre 5000 anni insieme a un rudimentale modo di scrivere gli eventi sopra una tavoletta d’argilla plastica, di legno o una lastra di pietra, ne esordì pure un altro sintetico di descrivere una struttura architettonica: la planimetria. Testimone di entrambi i generi un singolare reperto archeologico, scoperto tra il 1898-99, e risalente alla fine del IV millennio a.C. e conservato nel Museo del Cairo: la cosiddetta tavolozza di Re Narmer. La lastra di siltite verdastra, tagliata in forma di scudo (42x64 cm), in perfetto stato di conservazione, appare riccamente decorata su entrambe le facce. Oggetto non raro, servendo da supporto per i colori da trucco impiegati dagli Egizi, è tuttavia unico per le informazioni che tramanda insieme ai celebri antesignani geroglifici. Nel registro più basso della faccia anteriore, si distingue, infatti, la pianta di una fortificazione, rappresentazione planimetrica che se non fu la prima della Storia, è però a tutt’oggi la prima del genere pervenutaci, forse suggerita dai resti degli edifici ‘rasi al suolo’ durante le coeve guerre. Una sorta di scrittura oggettiva, convenzionale e ricca di informazioni, che da allora non muterà più nell’ambito del disegno progettuale, tant’è che i dati desumibili da quella rappresentazione trovano ampio riscontro nei diversi ruderi di costruzioni difensive similari poste a protezione della frontiera meridionale dell’Egitto. Relativamente semplice perciò procedere sulla loro falsariga alla ricostruzione grafica e virtuale della fortificazione, individuandone i criteri informatori e le linee per eventuali restauri delle anzidette similari. Allo scopo la fase prodromica per lo studio di quell’antesignana pianta è il suo dimensionamento, operazione che implica l’individuazione di un particolare elemento di grandezza. Osservando l’incisione a discreto ingrandimento, risalta, lungo il perimetro esterno della fortificazione, un parapetto posto sul bordo dello spalto, quasi certamente frastagliato, che stando alle numerose costruzioni in mattoni crudi e di fango, e più ancora alle necessità difensive, non doveva superare lo spessore di 100-120 cm, spessore che diviene perciò la nostra fondamentale unità di misura, ovviamente con una tolleranza del 20% non inficiante l’approfondimento architettonico e strutturale. Nessuna indicazione si può desumere per l’altezza che deve inevitabilmente ricavarsi solo per analogia dai frammenti ancora integri di fortificazione coeve. Superata tale fase s’impone quella della interpretazione della logica difensiva sottesa che, per il lentissimo evolversi delle procedure ossidionali dell’antichità, non può ritenersi limitata a quel preciso ambito cronologico ma si protrae per lo meno per altri due millenni ancora favorendo l’indagine e fornendo a sua volta una chiave d’interpretazione per l’intera tipologia. In linea di larga massima la fortificazione si presenta con impianto rettangolare scandito da dodici torri di cui quattro innestate ai vertici, originando perciò una disposizione che ne vede cinque sui lati lunghi e tre sui corti. Il fin troppo breve interasse che le separa, induce a ritenerle, piuttosto dei contrafforti, delle torri propriamente dette, soluzione abbastanza frequente nell’architettura dell’antico vicino oriente, per la scarsa saldezza delle mura di fango. Sicuramente torri erano, invece, le quattro poste al centro di ciascun lato, due delle quali munite di grosse piombatoie centrali, poste probabilmente ad interdizione del sottostante varco d’ingresso, il punto più debole della struttura. La sapiente illuminazione adottata nella ripresa fotografica mette in evidenza la presenza di una scarpa continua ai piedi delle mura, inclinata di 45°, soluzione che costituisce un espediente canonico dell’architettura militare utilizzato per incrementare la stabilità dell’opera, provocando, al contempo, il rimbalzo orizzontale delle pietre lasciate cadere dall’alto, con esiti immaginabili.
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11591/201676
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