Le regulae sono astratte statuizioni di norme, formulazioni di principi, che tendono a confluire in opere di carattere isagogico. Etimologicamente la parola regula evoca l’idea di qualcosa che è lineare, che guida, che dirige, come l’indicazione di un ordine di procedura (da rectum = “tracciato in linea retta”). In Varrone regulae sono le parti dritte dell’aratro: l.L. 5.135. In Caes. b.civ. 2.10.4 quadratas regulas erano le sbarre dritte di metallo adibite a vari usi. Il giurista Nerazio indica ancora come regula il disco che veniva utilizzato nei frantoi per pressare le olive: D. 19.2.19.2 (Ulp. 32 ad ed.); ma vd. anche Colum. 12.54.2; Plin. n.h. 15.5. La parola esprime quindi, sin dal suo primo impiego, un valore semantico di “misura” (vd. Cic. de leg. 1.19: lex est iuris atque iniuriae regula). Dalle regulae si passa con la dispositio all’ordo et distributio rerum (Rhet. ad Herenn. 1.2.3; Vitr. 1.2.2). Ed è per questo che troviamo la regula che indica in linguaggio retorico anche la scriminante tra l’argomentazione vera e quella falsa come in Cic. Brut. 41.152; e in acad. pr. 14.58 dove: habeo enim regulam (…). Quasi vero non specie visa iudicentur, quae fidem nullam habebunt sublat veri et falsi nota. Cicerone usa “regola” come equivalente latino di k¥nèn (nel senso di “misura”, “parametro”) in epistemologia, etica, dialettica e retorica, mai però come norma in senso giuridico. La regula intesa come norma vincolante appare infatti in latino solo più tardi (I sec. d.C.). Se la regula in epoca postellenistica da misura e indirizzo del metodo scientifico diventa norma vincolante - lo stesso Vitruvio in 1.1.18 esorta i suoi lettori a rispettare la regula artis grammaticae – il dubbio è se a questa metodologia si debba riconoscere un valore solo isagogico/descrittivo (se si vuole quantitativo) o anche una valenza normativa sua propria (quindi con immediato valore effettuale qualitativo). Questo dipende da come ci si pone rispetto al problema del rapporto tra la “regola” e il “sistema” che scaturisce dall’ordine (dispositio in senso retorico) che è dato da ogni insieme di regole costruito con riferimento a qualsiasi contesto dato; direbbe Wittgenstein: le regole del giuoco (si vd. le Philosophische Untersuchungen § 54, 66). Acquista rilievo in questo caso quindi la distinzione tra approccio analogista e approccio anomalista. Il termine ¢nalog…a viene tradotto in latino con la parola proportio. In questo senso ana- (“a prescindere dal”) “logos”. Essa è quindi il nomos individuato nella similitudine o nella proporzione [Isid. orig. 1.28.1: analogia latine similium comparatio sive proportio nominatur]. La ¢nwmal…a è invece la discontinuità data dall’uso, dall’imprevedibilità. In questo senso, a-“nomos”, antitesi del nomos. Il Tesaurus linguae Latinae (n. 12170 ad v.) considera infatti suoi sinonimi la dissimilitudo, l’usus, l’utilitas e la consuetudo. Queste due posizioni esattamente antitetiche, sebbene ad esempio Varrone abbia tentato di conciliarle (Varro l.L. 8.9.23), fanno capo, come è noto, per gli analogisti alla scuola alessandrina (II sec. a.C.); e per gli anomalisti all’orientamento stoico iniziato da Crisippo ad Atene nel III secolo a.C.; e poi continuato a Pergamo e Rodi nel II, prima di confluire a Roma a partire dalla fine II, inizi del I secolo a.C. Da un lato quindi troviamo chi cerca la “regolarità nascosta nel mare delle differenze” (gli anomalisti); dall’altro chi cerca i casi simili in una rete di analogie che costituirebbe la realtà fenomenica (gli analogisti appunto). Questa visione polarizzata distingue quindi due concezioni del mondo e dunque anche due diverse impostazioni nel modo di affrontare il problema della ricerca della giusta metodologia per la ricerca del “vero” scientifico. Emmanuel Sander (L’analogie. Coeur de la pensée, Odile Jacob, Paris 2013, pp. 688) - partendo dal presupposto che la descrizione del mondo fenomenico secondo una rete di analogie non corrisponde alla realtà fisica - critica l’idea aristotelica di una segmentazione oggettiva del mondo fenomenico esterna all’essere umano e il principio che il metodo storico-matematico possa da solo descrivere esaustivamente la realtà; e ritiene piuttosto che esso sia un effetto della propensione naturale dell’essere umano a descrivere il mondo riducendo tutto in rapporti di similitudine. Questo spiegherebbe anche perché, sin dall’antichità, l’uomo abbia cercato di risolvere il problema della individuazione della giusta metodologia per la ricerca del vero nelle discipline scientifiche facendo ricorso al metodo matematico e alla logica formale. Sia l’uno che l’altra, tuttavia, non possono risolvere il problema (sempre attuale) del rapporto tra sistema e discontinuità; ossia l’eventualità di ammettere una sopravvenienza ab externo di regole nuove (approccio anomalista). Per risolvere il problema della “legittimazione” e della “permanenza”, quindi, qualsiasi norma, fosse anche in architettura una di quelle dell’ordo vitruviano o della Regola di Vignola, non può trovare applicazione di per sé, solo in virtù di una sua intrinseca validità (posizione analogista); occorre sempre che questa trovi anche un “riscontro di legittimità esterno” che è dato dalla capacità della regola di adattarsi in modo appropriato al caso concreto che può essere simile, ma non è mai eguale a qualsiasi altro (posizione anomalista). Tra i tanti che hanno cercato di risolvere la questione si devono menzionare almeno Leibniz (con la Nova Methodus) e Giambattista Vico (con la Scienza nuova). Il primo (senza conoscere il principio di indeterminatezza di Gödel e Tarski) cercò di risolvere il problema con una giusta mediazione tra système accompli e système réglé (De casibus perplexis in iure 1666 e Nova metodus 1667) propugnando l’adozione di una “nuova logica” del probabile o del verosimile basata anche sui dati tratti dalla natura delle cose (de Iuliis 2012, p. XLIX). Il secondo, nel De ratione (1708), criticando apertamente il metodo geometrico o, se si vuole, il razionalismo cartesiano, esorta a non attenersi nei «vitae agenda» alla «recta mentis regula, quae rigida est», ma a propendere verso l’adozione di una regola epistemologica più flessibile come, appunto, il regolo Lesbio «illa Lesbiorum flexilis, quae non ad se corpora dirigit, se ad se corpora inflectit» (De Ratione p. 79). Già Erasmus, in uno degli Adagia (degli anni 1513 e 1514) dove troviamo forse un precedente del verum quia factum vichiano, aveva scritto: «Lesbia regula dicitur quoties praepostere, non ad ratione factum, sed ratio ad factum accommodatur». Sarà così che nella Scienza nuova (1744) Vico stabilirà una corrispondenza tra il flessibile “regolo lesbio” e il sensus communis che impone l’intervento di una «prudenza civile, che in verun modo non soffre che delle cose agibili l’uomo pensi con metodo geometrico». Proprio al sensus communis il Vico subordina l’esercizio di quella prudentia che ritiene essenziale per la corretta gestione dell’agire umano «Praeterea sensus communis, ut omnis prudentiae, ita eloquentiae regula est». La prudentia, quale impegno nel vestigare verum (la ricerca del vero), diventa così la regola delle regole. L’ordine elevato a sistema trova così il suo temperamento anche nel rispetto delle regole, ma solo finché tenga conto anche dei dati tratti dalla natura delle cose.
Dalla “regula” come ordine all’ordine come regola. Analogisti e anomalisti alla ricerca del “vero” nel metodo scientifico: qualche riflessione a margine del De architectura di Vitruvio
SACCHI, Osvaldo
2016
Abstract
Le regulae sono astratte statuizioni di norme, formulazioni di principi, che tendono a confluire in opere di carattere isagogico. Etimologicamente la parola regula evoca l’idea di qualcosa che è lineare, che guida, che dirige, come l’indicazione di un ordine di procedura (da rectum = “tracciato in linea retta”). In Varrone regulae sono le parti dritte dell’aratro: l.L. 5.135. In Caes. b.civ. 2.10.4 quadratas regulas erano le sbarre dritte di metallo adibite a vari usi. Il giurista Nerazio indica ancora come regula il disco che veniva utilizzato nei frantoi per pressare le olive: D. 19.2.19.2 (Ulp. 32 ad ed.); ma vd. anche Colum. 12.54.2; Plin. n.h. 15.5. La parola esprime quindi, sin dal suo primo impiego, un valore semantico di “misura” (vd. Cic. de leg. 1.19: lex est iuris atque iniuriae regula). Dalle regulae si passa con la dispositio all’ordo et distributio rerum (Rhet. ad Herenn. 1.2.3; Vitr. 1.2.2). Ed è per questo che troviamo la regula che indica in linguaggio retorico anche la scriminante tra l’argomentazione vera e quella falsa come in Cic. Brut. 41.152; e in acad. pr. 14.58 dove: habeo enim regulam (…). Quasi vero non specie visa iudicentur, quae fidem nullam habebunt sublat veri et falsi nota. Cicerone usa “regola” come equivalente latino di k¥nèn (nel senso di “misura”, “parametro”) in epistemologia, etica, dialettica e retorica, mai però come norma in senso giuridico. La regula intesa come norma vincolante appare infatti in latino solo più tardi (I sec. d.C.). Se la regula in epoca postellenistica da misura e indirizzo del metodo scientifico diventa norma vincolante - lo stesso Vitruvio in 1.1.18 esorta i suoi lettori a rispettare la regula artis grammaticae – il dubbio è se a questa metodologia si debba riconoscere un valore solo isagogico/descrittivo (se si vuole quantitativo) o anche una valenza normativa sua propria (quindi con immediato valore effettuale qualitativo). Questo dipende da come ci si pone rispetto al problema del rapporto tra la “regola” e il “sistema” che scaturisce dall’ordine (dispositio in senso retorico) che è dato da ogni insieme di regole costruito con riferimento a qualsiasi contesto dato; direbbe Wittgenstein: le regole del giuoco (si vd. le Philosophische Untersuchungen § 54, 66). Acquista rilievo in questo caso quindi la distinzione tra approccio analogista e approccio anomalista. Il termine ¢nalog…a viene tradotto in latino con la parola proportio. In questo senso ana- (“a prescindere dal”) “logos”. Essa è quindi il nomos individuato nella similitudine o nella proporzione [Isid. orig. 1.28.1: analogia latine similium comparatio sive proportio nominatur]. La ¢nwmal…a è invece la discontinuità data dall’uso, dall’imprevedibilità. In questo senso, a-“nomos”, antitesi del nomos. Il Tesaurus linguae Latinae (n. 12170 ad v.) considera infatti suoi sinonimi la dissimilitudo, l’usus, l’utilitas e la consuetudo. Queste due posizioni esattamente antitetiche, sebbene ad esempio Varrone abbia tentato di conciliarle (Varro l.L. 8.9.23), fanno capo, come è noto, per gli analogisti alla scuola alessandrina (II sec. a.C.); e per gli anomalisti all’orientamento stoico iniziato da Crisippo ad Atene nel III secolo a.C.; e poi continuato a Pergamo e Rodi nel II, prima di confluire a Roma a partire dalla fine II, inizi del I secolo a.C. Da un lato quindi troviamo chi cerca la “regolarità nascosta nel mare delle differenze” (gli anomalisti); dall’altro chi cerca i casi simili in una rete di analogie che costituirebbe la realtà fenomenica (gli analogisti appunto). Questa visione polarizzata distingue quindi due concezioni del mondo e dunque anche due diverse impostazioni nel modo di affrontare il problema della ricerca della giusta metodologia per la ricerca del “vero” scientifico. Emmanuel Sander (L’analogie. Coeur de la pensée, Odile Jacob, Paris 2013, pp. 688) - partendo dal presupposto che la descrizione del mondo fenomenico secondo una rete di analogie non corrisponde alla realtà fisica - critica l’idea aristotelica di una segmentazione oggettiva del mondo fenomenico esterna all’essere umano e il principio che il metodo storico-matematico possa da solo descrivere esaustivamente la realtà; e ritiene piuttosto che esso sia un effetto della propensione naturale dell’essere umano a descrivere il mondo riducendo tutto in rapporti di similitudine. Questo spiegherebbe anche perché, sin dall’antichità, l’uomo abbia cercato di risolvere il problema della individuazione della giusta metodologia per la ricerca del vero nelle discipline scientifiche facendo ricorso al metodo matematico e alla logica formale. Sia l’uno che l’altra, tuttavia, non possono risolvere il problema (sempre attuale) del rapporto tra sistema e discontinuità; ossia l’eventualità di ammettere una sopravvenienza ab externo di regole nuove (approccio anomalista). Per risolvere il problema della “legittimazione” e della “permanenza”, quindi, qualsiasi norma, fosse anche in architettura una di quelle dell’ordo vitruviano o della Regola di Vignola, non può trovare applicazione di per sé, solo in virtù di una sua intrinseca validità (posizione analogista); occorre sempre che questa trovi anche un “riscontro di legittimità esterno” che è dato dalla capacità della regola di adattarsi in modo appropriato al caso concreto che può essere simile, ma non è mai eguale a qualsiasi altro (posizione anomalista). Tra i tanti che hanno cercato di risolvere la questione si devono menzionare almeno Leibniz (con la Nova Methodus) e Giambattista Vico (con la Scienza nuova). Il primo (senza conoscere il principio di indeterminatezza di Gödel e Tarski) cercò di risolvere il problema con una giusta mediazione tra système accompli e système réglé (De casibus perplexis in iure 1666 e Nova metodus 1667) propugnando l’adozione di una “nuova logica” del probabile o del verosimile basata anche sui dati tratti dalla natura delle cose (de Iuliis 2012, p. XLIX). Il secondo, nel De ratione (1708), criticando apertamente il metodo geometrico o, se si vuole, il razionalismo cartesiano, esorta a non attenersi nei «vitae agenda» alla «recta mentis regula, quae rigida est», ma a propendere verso l’adozione di una regola epistemologica più flessibile come, appunto, il regolo Lesbio «illa Lesbiorum flexilis, quae non ad se corpora dirigit, se ad se corpora inflectit» (De Ratione p. 79). Già Erasmus, in uno degli Adagia (degli anni 1513 e 1514) dove troviamo forse un precedente del verum quia factum vichiano, aveva scritto: «Lesbia regula dicitur quoties praepostere, non ad ratione factum, sed ratio ad factum accommodatur». Sarà così che nella Scienza nuova (1744) Vico stabilirà una corrispondenza tra il flessibile “regolo lesbio” e il sensus communis che impone l’intervento di una «prudenza civile, che in verun modo non soffre che delle cose agibili l’uomo pensi con metodo geometrico». Proprio al sensus communis il Vico subordina l’esercizio di quella prudentia che ritiene essenziale per la corretta gestione dell’agire umano «Praeterea sensus communis, ut omnis prudentiae, ita eloquentiae regula est». La prudentia, quale impegno nel vestigare verum (la ricerca del vero), diventa così la regola delle regole. L’ordine elevato a sistema trova così il suo temperamento anche nel rispetto delle regole, ma solo finché tenga conto anche dei dati tratti dalla natura delle cose.I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.