Dopo le trasformazioni operate nella seconda metà del Cinquecento per adeguare moltissime chiese medievali ai dettami del Concilio di Trento, in Campania si diede avvio, nel secolo successivo, a un intenso programma di adattamento al gusto barocco che vide coinvolta la maggior parte del patrimonio ecclesiastico medievale. Questa nuova stagione architettonica ebbe il massimo sviluppo tra la fine del Seicento e il Settecento, quando i molti terremoti che funestarono la regione offrirono il pretesto per giustificare, attraverso necessarie opere di consolidamento, totali ricostruzioni a fundamentis che, in alcuni casi, trasformarono le chiese medievali in fastose “salles de fêtes”, come le definì efficacemente Bertaux. Per questo tipo di interventi non si può parlare di restauro architettonico nell’accezione attuale in quanto manca ancora quel distacco critico che consente la distinzione tra passato e presente e, dunque, fra creazione dell’opera architettonica e intervento restaurativo. La concezione che prevale nel Settecento e che porterà ad allontanare la presa di coscienza dalla giusta causa della conservazione è quella del «restaurare come reficere e, dunque, come continuità, incessante operazione di riproduzione, ereditata dal mondo latino e convalidata dalle note tesi classiciste e idealiste dell’abate Bellori» (Dezzi Bardeschi). Si tratta cioè ancora di interventi che hanno una forte componente progettuale e che, non a caso, vengono connotati nei documenti dell’epoca come rifattioni. Dopo una breve premessa per comprendere meglio i connotati di questo tipo di interventi in relazione alla cultura teorica settecentesca, la relazione verterà sull’approfondimento di un caso specifico: il duomo di Aversa. Questa millenaria fabbrica ha avuto due interventi corposi di rifattione a distanza di pochi anni, nella seconda metà del Seicento il primo e nel primo decennio del Settecento il secondo. A parte il cenno che ne fa il Costa (ripreso senza aggiunte dal Vitale e dalla storiografia più recente) quasi nulla si conosceva sinora dell’opera di totale trasformazione e abbellimento del duomo promossa a partire dal 1680 dal vescovo Paolo Carafa (1665-86). Nuovi documenti consentono invece di ripercorrere le vicende di questo cantiere nel quale furono coinvolti importanti artisti del Seicento napoletano. Solo attraverso la ricostruzione filologica è possibile farsi un’idea della nuova configurazione interna poiché non ne resta traccia, a parte pochissimi frammenti. L’edificio, infatti, messo a dura prova dal terremoto del 1702, infatti, richiese un nuovo intervento di consolidamento trasformato in una vera e propria opera di ricostruzione a fundamentis che cancellò di fatto la precedente veste. Si ripercorreranno le vicende anche di questa nuova rifattione promossa su iniziativa del vescovo Innico Caracciolo e progettata dall’architetto romano Carlo Buratti tra il 1702 e il 1712, che riuscì a saldare un difficile equilibrio tra magnifica antiquitatis forma e modernitatis venustas come scrive con efficacia il committente nella Relatio ad Limina.

Prima della cultura del restauro. ‘Rifattioni’ del duomo di Aversa tra Sei e Settecento

PEZONE, Maria Gabriella
2013

Abstract

Dopo le trasformazioni operate nella seconda metà del Cinquecento per adeguare moltissime chiese medievali ai dettami del Concilio di Trento, in Campania si diede avvio, nel secolo successivo, a un intenso programma di adattamento al gusto barocco che vide coinvolta la maggior parte del patrimonio ecclesiastico medievale. Questa nuova stagione architettonica ebbe il massimo sviluppo tra la fine del Seicento e il Settecento, quando i molti terremoti che funestarono la regione offrirono il pretesto per giustificare, attraverso necessarie opere di consolidamento, totali ricostruzioni a fundamentis che, in alcuni casi, trasformarono le chiese medievali in fastose “salles de fêtes”, come le definì efficacemente Bertaux. Per questo tipo di interventi non si può parlare di restauro architettonico nell’accezione attuale in quanto manca ancora quel distacco critico che consente la distinzione tra passato e presente e, dunque, fra creazione dell’opera architettonica e intervento restaurativo. La concezione che prevale nel Settecento e che porterà ad allontanare la presa di coscienza dalla giusta causa della conservazione è quella del «restaurare come reficere e, dunque, come continuità, incessante operazione di riproduzione, ereditata dal mondo latino e convalidata dalle note tesi classiciste e idealiste dell’abate Bellori» (Dezzi Bardeschi). Si tratta cioè ancora di interventi che hanno una forte componente progettuale e che, non a caso, vengono connotati nei documenti dell’epoca come rifattioni. Dopo una breve premessa per comprendere meglio i connotati di questo tipo di interventi in relazione alla cultura teorica settecentesca, la relazione verterà sull’approfondimento di un caso specifico: il duomo di Aversa. Questa millenaria fabbrica ha avuto due interventi corposi di rifattione a distanza di pochi anni, nella seconda metà del Seicento il primo e nel primo decennio del Settecento il secondo. A parte il cenno che ne fa il Costa (ripreso senza aggiunte dal Vitale e dalla storiografia più recente) quasi nulla si conosceva sinora dell’opera di totale trasformazione e abbellimento del duomo promossa a partire dal 1680 dal vescovo Paolo Carafa (1665-86). Nuovi documenti consentono invece di ripercorrere le vicende di questo cantiere nel quale furono coinvolti importanti artisti del Seicento napoletano. Solo attraverso la ricostruzione filologica è possibile farsi un’idea della nuova configurazione interna poiché non ne resta traccia, a parte pochissimi frammenti. L’edificio, infatti, messo a dura prova dal terremoto del 1702, infatti, richiese un nuovo intervento di consolidamento trasformato in una vera e propria opera di ricostruzione a fundamentis che cancellò di fatto la precedente veste. Si ripercorreranno le vicende anche di questa nuova rifattione promossa su iniziativa del vescovo Innico Caracciolo e progettata dall’architetto romano Carlo Buratti tra il 1702 e il 1712, che riuscì a saldare un difficile equilibrio tra magnifica antiquitatis forma e modernitatis venustas come scrive con efficacia il committente nella Relatio ad Limina.
2013
Pezone, Maria Gabriella
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11591/172490
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