Colpevolmente ignorata tanto dalla guidistica sei e settecentesca quanto dalla più recente e aggiornata storiografia architettonica napoletana, la fondazione del monastero di S. Benedetto lungo la salita del Vomero ha rappresentato un episodio decisivo nel complessivo sviluppo di un’area marginale di Chiaia, il più occidentale dei borghi napoletani. Proprio in quest'ottica la sua riscoperta assume un valore di particolare rilievo soprattutto se letta in relazione alle trasformazioni urbane e alle diverse funzioni che questa ben circoscritta parte della città ha assunto sin dagli albori dell’età moderna, luogo residenziale privilegiato conseguentemente alla dismissione del patrimonio fondiario extramoenia degli Ordini religiosi avviato già alla fine del Quattrocento, e proseguito poi per oltre due secoli in una disordinata proliferazione dei censi su iniziativa della più recente classe dirigente napoletana e spagnola. Fortemente sostenuta dai vertici della congregazione benedettina di Montecassino, la fondazione nel 1625 di un monastero e di una chiesa nel borgo avrebbe rappresentato l’imprescindibile premessa ad un ambizioso progetto insediativo inizialmente affidato al regio ingegnere Bartolomeo Cartaro, ma mai concretizzato per una lunga serie di problemi che condannerà il piccolo complesso all'ambiguo ruolo di foresteria e di convalescenziario, e oggetto per questo di modesti adeguamenti e ampliamenti portati faticosamente avanti sino alla definitiva soppressione. Solo agli inizi del Settecento verrà d’altra parte promossa la costruzione della chiesa, ritenuta oramai indispensabile in una precisa ottica di visibilità e di predominio territoriale per una comunità da tempo in piena crisi identitaria, e che proprio nel progressivo isolamento dalla vita del borgo vedeva frenate le proprie ambizioni. Un nutrito e inedito corpus documentario e iconografico ha consentito in particolare di assegnare con certezza la paternità della nuova fabbrica ad Arcangelo Guglielmelli, architetto Ordinario di Montecassino che concepirà per i religiosi di Chiaia un singolare impianto ellittico con due cappelline laterali e profondo coro, inedito nella sua sia pur vasta ed eterogenea produzione ma esito di una personalissima ricerca sui possibili sviluppi della pianta centrale, compromesso assai felice fra necessità di ordine pratico e ben precise richieste della committenza. I lavori, iniziati nel 1706 ma ultimati solo un ventennio più tardi, vedranno avvicendarsi nel cantiere lungo la salita del Vomero figure di primissimo piano nello scenario artistico napoletano della prima metà del Settecento, dai pittori Oronzo e Nicola Malinconico allo stuccatore Pietro Scarola, dai mastri d’ascia Mattia Pinto e Giuseppe Jevoli sino ai marmorari Giuseppe Picci e Giuseppe Bastelli. Ridotto a commenda del monastero dei SS. Severino e Sossio, il complesso di S. Benedetto subirà gli effetti dei decreti di soppressione emanati durante il Decennio francese, messo all'asta nel 1806 e progressivamente trasformato in un grande edificio d’abitazione; la chiesa, inglobata all'interno di un caotico insieme di bassi e di quartini destinati all'affitto che altererà per sempre il particolarissimo rapporto con l’ambiente circostante immaginato dal Guglielmelli, conserverà viceversa la sua funzione originaria, sopravvivendo fortunosamente alla demolizione. Solo sfiorate dalla realizzazione del rione Amedeo, le vicende del fabbricato e del fondo agricolo retrostante si intrecceranno alla fine dell’Ottocento con quelle del Piano di Risanamento e Ampliamento della città, e oggetto delle mire delle grandi società immobiliari nazionali, nuove e indiscusse protagoniste nell'accaparramento dei pochi suoli ancora inedificati della zona. Irrimediabilmente alterata da una lunga serie di rifacimenti, nel 1920 la chiesa verrà donata alla Curia, e restituita ai fedeli del quartiere sette anni più tardi.

Il monastero ritrovato. S. Benedetto all'Arco Mirelli 1625-1927

Pignatelli Spinazzola Giuseppe
2020

Abstract

Colpevolmente ignorata tanto dalla guidistica sei e settecentesca quanto dalla più recente e aggiornata storiografia architettonica napoletana, la fondazione del monastero di S. Benedetto lungo la salita del Vomero ha rappresentato un episodio decisivo nel complessivo sviluppo di un’area marginale di Chiaia, il più occidentale dei borghi napoletani. Proprio in quest'ottica la sua riscoperta assume un valore di particolare rilievo soprattutto se letta in relazione alle trasformazioni urbane e alle diverse funzioni che questa ben circoscritta parte della città ha assunto sin dagli albori dell’età moderna, luogo residenziale privilegiato conseguentemente alla dismissione del patrimonio fondiario extramoenia degli Ordini religiosi avviato già alla fine del Quattrocento, e proseguito poi per oltre due secoli in una disordinata proliferazione dei censi su iniziativa della più recente classe dirigente napoletana e spagnola. Fortemente sostenuta dai vertici della congregazione benedettina di Montecassino, la fondazione nel 1625 di un monastero e di una chiesa nel borgo avrebbe rappresentato l’imprescindibile premessa ad un ambizioso progetto insediativo inizialmente affidato al regio ingegnere Bartolomeo Cartaro, ma mai concretizzato per una lunga serie di problemi che condannerà il piccolo complesso all'ambiguo ruolo di foresteria e di convalescenziario, e oggetto per questo di modesti adeguamenti e ampliamenti portati faticosamente avanti sino alla definitiva soppressione. Solo agli inizi del Settecento verrà d’altra parte promossa la costruzione della chiesa, ritenuta oramai indispensabile in una precisa ottica di visibilità e di predominio territoriale per una comunità da tempo in piena crisi identitaria, e che proprio nel progressivo isolamento dalla vita del borgo vedeva frenate le proprie ambizioni. Un nutrito e inedito corpus documentario e iconografico ha consentito in particolare di assegnare con certezza la paternità della nuova fabbrica ad Arcangelo Guglielmelli, architetto Ordinario di Montecassino che concepirà per i religiosi di Chiaia un singolare impianto ellittico con due cappelline laterali e profondo coro, inedito nella sua sia pur vasta ed eterogenea produzione ma esito di una personalissima ricerca sui possibili sviluppi della pianta centrale, compromesso assai felice fra necessità di ordine pratico e ben precise richieste della committenza. I lavori, iniziati nel 1706 ma ultimati solo un ventennio più tardi, vedranno avvicendarsi nel cantiere lungo la salita del Vomero figure di primissimo piano nello scenario artistico napoletano della prima metà del Settecento, dai pittori Oronzo e Nicola Malinconico allo stuccatore Pietro Scarola, dai mastri d’ascia Mattia Pinto e Giuseppe Jevoli sino ai marmorari Giuseppe Picci e Giuseppe Bastelli. Ridotto a commenda del monastero dei SS. Severino e Sossio, il complesso di S. Benedetto subirà gli effetti dei decreti di soppressione emanati durante il Decennio francese, messo all'asta nel 1806 e progressivamente trasformato in un grande edificio d’abitazione; la chiesa, inglobata all'interno di un caotico insieme di bassi e di quartini destinati all'affitto che altererà per sempre il particolarissimo rapporto con l’ambiente circostante immaginato dal Guglielmelli, conserverà viceversa la sua funzione originaria, sopravvivendo fortunosamente alla demolizione. Solo sfiorate dalla realizzazione del rione Amedeo, le vicende del fabbricato e del fondo agricolo retrostante si intrecceranno alla fine dell’Ottocento con quelle del Piano di Risanamento e Ampliamento della città, e oggetto delle mire delle grandi società immobiliari nazionali, nuove e indiscusse protagoniste nell'accaparramento dei pochi suoli ancora inedificati della zona. Irrimediabilmente alterata da una lunga serie di rifacimenti, nel 1920 la chiesa verrà donata alla Curia, e restituita ai fedeli del quartiere sette anni più tardi.
2020
978-88-6906-113-4
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11591/427091
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