lo scopo principale di preservarne le proprietà biomeccaniche. E’ noto, infatti, che tutti i materiali vanno incontro ad un processo di invecchiamento che è caratterizzato essenzialmente da modifiche della rigidità (stiffness), della capacità di assorbire gli stress (toughness) e quindi in ultima analisi della resistenza meccanica (strength). Il rimodellamento osseo avviene ad opera di unità multicellulari che lavorano in sequenza in determinati microdistretti dello scheletro. In particolare gli osteoclasti procedono al riassorbimento dell’osso mentre gli osteoblasti ne riformano più o meno la stessa quantità immediatamente dopo. Uno squilibrio in questo processo, che favorisce il riassorbimento osseo, si traduce in una perdita quantitativa di tessuto osseo ed in una alterazione qualitativa della microarchitettura scheletrica, come è possibile vedere in condizioni cliniche quali l’osteoporosi, l’artrite reumatoide e le metastasi ossee. Attualmente, sono disponibili terapie farmacologiche per prevenire o invertire l’eccessivo riassorbimento osseo attraverso l’inibizione degli osteoclasti. I bisfosfonati azotati costituiscono ancor’oggi il gold standard della terapia anti-riassorbitiva. Essi si legano ai cristalli di idrossiapatite con alta affinità. Il complesso idrossiapatite/bisfosfonato viene fagocitato dall’osteoclasta durante la fase di riassorbimento ed il bisfosfonato azotato, non digeribile dagli enzimi lisosomiali, andrà ad agire inibendo la via metabolica del mevalonato, la stessa che porta alla sintesi del colesterolo endogeno, con blocco della produzione di alcune piccole proteine e conseguente innesco dell’apoptosi dello stesso osteoclasta. In tal modo si realizza una riduzione marcata del riassorbimento osseo, alla quale conseguirà come effetto del coupling, una successiva riduzione dell’apposizione di nuovo osso. Per le caratteristiche farmacocinetiche , i bisfosfonati si distribuiscono elettivamente nelle lacune di riassorbimento presenti soprattutto nell’osso trabecolare, ed in quantità ridotta a livello dell’osso compatto laddove esercitano un’azione quantitativamente inferiore. Per questo motivo i bisofosfonati hanno un’attività antifratturativa minore sul rischio di fratture dell’osso compatto, soprattutto a livello del radio. Un nuovo approccio, mirato anch’esso alla inibizione dell’attività osteoclastica e quindi del riassorbimento osseo, è rappresentato dalla inibizione del RANKL. Quest’ultimo è uno dei principali mediatori di stimolazione dell’attività degli osteoclasti, ed è essenziale anche per la loro formazione e sopravvivenza. Inoltre, la distribuzione tipica di un anticorpo monoclonale, ne consente l’attività sia a livello dell’osso trabecolare che compatto. Negli studi controllati con placebo della durata fino a 3 anni, il Denosumab riduce il rischio di frattura della colonna vertebrale, dell’anca e di altre sedi non vertebrali in donne in post-menopausa. I risultati hanno mostrato una riduzione del rischio relativo di nuove fratture vertebrali del 68% (p<0,001) nel gruppo trattato con denosumab nei confronti del gruppo trattato con placebo. Il gruppo trattato presentava inoltre anche una significativa riduzione dell’incidenza di fratture non vertebrali (riduzione del rischio relativo del 20%, P=0,01) e di fratture femorali (riduzione del rischio relativo del 40%, P=0,04). Per quanto riguarda la preservazione delle proprietà meccaniche dell’osso nei pazienti sottoposti a terapia con denosumab, alcuni studi hanno mostrato che il farmaco migliora i parametri geometrici che sono associati alla resistenza dell’osso in siti corticali , trabecolari e misti del femore prossimale. Questi risultati sono coerenti con le potenzialità di Denosumab di migliorare la resistenza ossea e le proprietà meccaniche e, infine, con il suo effetto sulla riduzione dell’incidenza di fratture vertebrali e non vertebrali (compreso il radio).

Il contributo dell’osso corticale e trabecolare alla resistenza scheletrica: nuove evidenze cliniche con denosumab

G. Iolascon;MORETTI A;F. Gimigliano
2012

Abstract

lo scopo principale di preservarne le proprietà biomeccaniche. E’ noto, infatti, che tutti i materiali vanno incontro ad un processo di invecchiamento che è caratterizzato essenzialmente da modifiche della rigidità (stiffness), della capacità di assorbire gli stress (toughness) e quindi in ultima analisi della resistenza meccanica (strength). Il rimodellamento osseo avviene ad opera di unità multicellulari che lavorano in sequenza in determinati microdistretti dello scheletro. In particolare gli osteoclasti procedono al riassorbimento dell’osso mentre gli osteoblasti ne riformano più o meno la stessa quantità immediatamente dopo. Uno squilibrio in questo processo, che favorisce il riassorbimento osseo, si traduce in una perdita quantitativa di tessuto osseo ed in una alterazione qualitativa della microarchitettura scheletrica, come è possibile vedere in condizioni cliniche quali l’osteoporosi, l’artrite reumatoide e le metastasi ossee. Attualmente, sono disponibili terapie farmacologiche per prevenire o invertire l’eccessivo riassorbimento osseo attraverso l’inibizione degli osteoclasti. I bisfosfonati azotati costituiscono ancor’oggi il gold standard della terapia anti-riassorbitiva. Essi si legano ai cristalli di idrossiapatite con alta affinità. Il complesso idrossiapatite/bisfosfonato viene fagocitato dall’osteoclasta durante la fase di riassorbimento ed il bisfosfonato azotato, non digeribile dagli enzimi lisosomiali, andrà ad agire inibendo la via metabolica del mevalonato, la stessa che porta alla sintesi del colesterolo endogeno, con blocco della produzione di alcune piccole proteine e conseguente innesco dell’apoptosi dello stesso osteoclasta. In tal modo si realizza una riduzione marcata del riassorbimento osseo, alla quale conseguirà come effetto del coupling, una successiva riduzione dell’apposizione di nuovo osso. Per le caratteristiche farmacocinetiche , i bisfosfonati si distribuiscono elettivamente nelle lacune di riassorbimento presenti soprattutto nell’osso trabecolare, ed in quantità ridotta a livello dell’osso compatto laddove esercitano un’azione quantitativamente inferiore. Per questo motivo i bisofosfonati hanno un’attività antifratturativa minore sul rischio di fratture dell’osso compatto, soprattutto a livello del radio. Un nuovo approccio, mirato anch’esso alla inibizione dell’attività osteoclastica e quindi del riassorbimento osseo, è rappresentato dalla inibizione del RANKL. Quest’ultimo è uno dei principali mediatori di stimolazione dell’attività degli osteoclasti, ed è essenziale anche per la loro formazione e sopravvivenza. Inoltre, la distribuzione tipica di un anticorpo monoclonale, ne consente l’attività sia a livello dell’osso trabecolare che compatto. Negli studi controllati con placebo della durata fino a 3 anni, il Denosumab riduce il rischio di frattura della colonna vertebrale, dell’anca e di altre sedi non vertebrali in donne in post-menopausa. I risultati hanno mostrato una riduzione del rischio relativo di nuove fratture vertebrali del 68% (p<0,001) nel gruppo trattato con denosumab nei confronti del gruppo trattato con placebo. Il gruppo trattato presentava inoltre anche una significativa riduzione dell’incidenza di fratture non vertebrali (riduzione del rischio relativo del 20%, P=0,01) e di fratture femorali (riduzione del rischio relativo del 40%, P=0,04). Per quanto riguarda la preservazione delle proprietà meccaniche dell’osso nei pazienti sottoposti a terapia con denosumab, alcuni studi hanno mostrato che il farmaco migliora i parametri geometrici che sono associati alla resistenza dell’osso in siti corticali , trabecolari e misti del femore prossimale. Questi risultati sono coerenti con le potenzialità di Denosumab di migliorare la resistenza ossea e le proprietà meccaniche e, infine, con il suo effetto sulla riduzione dell’incidenza di fratture vertebrali e non vertebrali (compreso il radio).
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11591/419639
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