I termini “immigrazione” e “immigrati” designano le persone di nazionalità straniera che si insediano in un paese ospitante, diverso da quello di origine; mentre le locuzioni “migrazioni” e “migranti”, adoperate nel linguaggio internazionale (si pensi all’organismo dell’ONU denominato Organizzazione Internazionale per le Migrazioni), indicano il più generale fenomeno dello spostamento in massa di persone da determinate aree geografiche verso altre, per finalità di insediamento a medio o lungo termine. I flussi migratori sono ascrivibili essenzialmente a tre fattori: motivi umanitari (profughi, sfollati e richiedenti asilo); ricongiungim ento familiare; fattori economici, mentre marginale è la presenza di stranieri addebitabile a motivi di studio, formazione professionale o turismo. Dal secondo dopoguerra in poi, soprattutto a seguito della recessione economica provocata dalla crisi petrolifera e della chiusura delle frontiere dei paesi dell’Europa del nord, si è verificato un mutamento, dal punto di vista geopolitico, delle cc.dd. “rotte migratorie”: cittadini provenienti dall’Africa settentrional e, dall’Asia, dall’Estremo oriente e dai paesi del Golfo Persico hanno “scelto” di stabilirsi in via permanente in Europa meridionale. La stessa Italia è divenuta, da storico paese di “emigrazione ”, un paese di “immigrazion e”. I flussi non hanno subito arresti sino ad oggi; sono, anzi, in inesorabile aumento. Le strategie messe in campo dall’UE per governare il fenomeno si muovono essenzialmente lungo due direttrici: l’ampio utilizzo di strumenti di “normazione leggera” – quali, ad esempio, il partenariato, il principio del mainstreaming ed il metodo aperto di coordinamento (MAC) -, e la politica contro la discriminazione (anche) per motivi etnici o razziali. L’opzione a favore del soft law reca con sé l’indubbio vantaggio di godere di un diffuso consenso a livello istituzionale – ne sono prova, inter alia, le comunicazioni della Commissione in materia di “approccio globale” e di “open coordination method” -; locale – tali strumenti non attentano al principio di sovranità, dispiegando, anzi, un effetto rassicurante circa la possibilità di controllare gli sviluppi delle politiche comunitarie -, e sociale, garantendo il coinvolgimento delle parti interessate nei processi decisionali. A paragone con l’hard law, la legislazione leggera offre, tuttavia, minori garanzie quanto ad obbligatorietà, certezza degli effetti, controllo giudiziario ed implementazion e dei diritti, oltre a spingere in direzione contraria alla, pure auspicata, armonizzazione delle politiche migratorie nazionali. La scelta di collegare la gestione dei flussi migratori alla politica antidiscriminato ria, ribadita nel Libro verde “Uguaglianza e non discriminazione nell’Unione europea Allargata” (COM/2004/03 79), non appare, per parte sua, del tutto convincente nella misura in cui ravvisa nella legislazione (sub specie di divieto) lo strumento esclusivo di tutela avverso comportamenti lesivi della parità di trattamento, lasciando sostanzialmente inattuate quelle misure “positive” (campagne di sensibilizzazion e, promozione dei valori della diversità, prevenzione, valutazione dell’efficacia delle politiche e delle prassi) di cui si riconosce, in astratto, la nevralgica importanza nell’ambito dell’azione comunitaria. In mancanza di un’efficace azione istituzionale, imputabile in primo luogo al fatto che, sino a tempi molto recenti, l’Unione Europea non era investita di una competenza formale in materia di immigrazione e di asilo, la disciplina apprestata dai singoli legislatori nazionali varia da paese a paese, rendendo oltre modo problematica l’auspicata armonizzazione a livello comunitario delle politiche “della” e “per” l’immigrazione, ovvero l’individuazion e delle condizioni per l’ammissione e il soggiorno degli stranieri (immigration policies) e la predisposizione di misure finalizzate all’erogazione di servizi sociali e alla effettiva integrazione nella società civile del paese ospitante (immigrant policies). A ciò si aggiunga che il trattamento giuridico riservato agli individui provenienti da paesi terzi assume carattere“specif ico” o, comunque, “differenziato” rispetto a quello previsto per i cittadini comunitari. La non coincidenza tra diritti dello “straniero” e diritti del cittadino comunitario non soltanto impedisce di stilare un decalogo delle situazioni giuridiche al primo riconducibili, ma delinea una categoria contrapposta a quella di cittadino di un paese appartenente all’Unione, nella quale confluiscono – per sottrazione e in via residuale – i “non diritti” dell’immigrato. A fronte di questo dato, spetta all’interprete – sgomberato il campo, per quanto possibile, da condizionament i di natura extragiuridica – sciogliere due interrogativi: l’uno relativo all’opportunitàlegittimità di un adattamento della normativa interna alle peculiarità etniche dei soggetti coinvolti; l’altro, subordinato alla risoluzione del primo quesito in termini affermativi, concernente il grado di adeguamento eventualmente esigibile da ciascun sistema nel rispetto dei principi e dei valori che ne sono a fondamento. In ciò si concreta la dialettica che la letteratura specialistica significativame nte esprime in termini di “identità vs. differenza”.

Per un diritto europeo dell’immigrazione

SAPORITO, Livia
2008

Abstract

I termini “immigrazione” e “immigrati” designano le persone di nazionalità straniera che si insediano in un paese ospitante, diverso da quello di origine; mentre le locuzioni “migrazioni” e “migranti”, adoperate nel linguaggio internazionale (si pensi all’organismo dell’ONU denominato Organizzazione Internazionale per le Migrazioni), indicano il più generale fenomeno dello spostamento in massa di persone da determinate aree geografiche verso altre, per finalità di insediamento a medio o lungo termine. I flussi migratori sono ascrivibili essenzialmente a tre fattori: motivi umanitari (profughi, sfollati e richiedenti asilo); ricongiungim ento familiare; fattori economici, mentre marginale è la presenza di stranieri addebitabile a motivi di studio, formazione professionale o turismo. Dal secondo dopoguerra in poi, soprattutto a seguito della recessione economica provocata dalla crisi petrolifera e della chiusura delle frontiere dei paesi dell’Europa del nord, si è verificato un mutamento, dal punto di vista geopolitico, delle cc.dd. “rotte migratorie”: cittadini provenienti dall’Africa settentrional e, dall’Asia, dall’Estremo oriente e dai paesi del Golfo Persico hanno “scelto” di stabilirsi in via permanente in Europa meridionale. La stessa Italia è divenuta, da storico paese di “emigrazione ”, un paese di “immigrazion e”. I flussi non hanno subito arresti sino ad oggi; sono, anzi, in inesorabile aumento. Le strategie messe in campo dall’UE per governare il fenomeno si muovono essenzialmente lungo due direttrici: l’ampio utilizzo di strumenti di “normazione leggera” – quali, ad esempio, il partenariato, il principio del mainstreaming ed il metodo aperto di coordinamento (MAC) -, e la politica contro la discriminazione (anche) per motivi etnici o razziali. L’opzione a favore del soft law reca con sé l’indubbio vantaggio di godere di un diffuso consenso a livello istituzionale – ne sono prova, inter alia, le comunicazioni della Commissione in materia di “approccio globale” e di “open coordination method” -; locale – tali strumenti non attentano al principio di sovranità, dispiegando, anzi, un effetto rassicurante circa la possibilità di controllare gli sviluppi delle politiche comunitarie -, e sociale, garantendo il coinvolgimento delle parti interessate nei processi decisionali. A paragone con l’hard law, la legislazione leggera offre, tuttavia, minori garanzie quanto ad obbligatorietà, certezza degli effetti, controllo giudiziario ed implementazion e dei diritti, oltre a spingere in direzione contraria alla, pure auspicata, armonizzazione delle politiche migratorie nazionali. La scelta di collegare la gestione dei flussi migratori alla politica antidiscriminato ria, ribadita nel Libro verde “Uguaglianza e non discriminazione nell’Unione europea Allargata” (COM/2004/03 79), non appare, per parte sua, del tutto convincente nella misura in cui ravvisa nella legislazione (sub specie di divieto) lo strumento esclusivo di tutela avverso comportamenti lesivi della parità di trattamento, lasciando sostanzialmente inattuate quelle misure “positive” (campagne di sensibilizzazion e, promozione dei valori della diversità, prevenzione, valutazione dell’efficacia delle politiche e delle prassi) di cui si riconosce, in astratto, la nevralgica importanza nell’ambito dell’azione comunitaria. In mancanza di un’efficace azione istituzionale, imputabile in primo luogo al fatto che, sino a tempi molto recenti, l’Unione Europea non era investita di una competenza formale in materia di immigrazione e di asilo, la disciplina apprestata dai singoli legislatori nazionali varia da paese a paese, rendendo oltre modo problematica l’auspicata armonizzazione a livello comunitario delle politiche “della” e “per” l’immigrazione, ovvero l’individuazion e delle condizioni per l’ammissione e il soggiorno degli stranieri (immigration policies) e la predisposizione di misure finalizzate all’erogazione di servizi sociali e alla effettiva integrazione nella società civile del paese ospitante (immigrant policies). A ciò si aggiunga che il trattamento giuridico riservato agli individui provenienti da paesi terzi assume carattere“specif ico” o, comunque, “differenziato” rispetto a quello previsto per i cittadini comunitari. La non coincidenza tra diritti dello “straniero” e diritti del cittadino comunitario non soltanto impedisce di stilare un decalogo delle situazioni giuridiche al primo riconducibili, ma delinea una categoria contrapposta a quella di cittadino di un paese appartenente all’Unione, nella quale confluiscono – per sottrazione e in via residuale – i “non diritti” dell’immigrato. A fronte di questo dato, spetta all’interprete – sgomberato il campo, per quanto possibile, da condizionament i di natura extragiuridica – sciogliere due interrogativi: l’uno relativo all’opportunitàlegittimità di un adattamento della normativa interna alle peculiarità etniche dei soggetti coinvolti; l’altro, subordinato alla risoluzione del primo quesito in termini affermativi, concernente il grado di adeguamento eventualmente esigibile da ciascun sistema nel rispetto dei principi e dei valori che ne sono a fondamento. In ciò si concreta la dialettica che la letteratura specialistica significativame nte esprime in termini di “identità vs. differenza”.
2008
978-88-3488604-5
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11591/161844
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