Il problema, cui è dedicata la presente monografia attiene al significato e alle modalità di attuazione della tutela risarcitoria che la disciplina della revisione contabile obbligatoria riserva alla società, ai soci e ai terzi. Un'analisi che da un lato ripercorra le tappe del dibattito sviluppatosi in dottrina al fine di ricostruire il ruolo del revisore nel quadro dei controlli societari, sia dall'altro diretta a chiarire il valore e il significato che assumono le regole che delineano il regime giuridico della responsabilità. Perciò, nel primo capitolo si sottolineano le ragioni alla base della disciplina della responsabilità del revisore. Si richiama soprattutto la necessità di una particolare tutela dei soci o dei terzi investitori, di solito riferita all'affidamento conseguente alla diffusione ed alla pubblicità del giudizio sul bilancio. Individuati gli interessi protetti, l’indagine si occupa di verificare su un piano più specifico l'estensione e le modalità di attuazione della tutela che la disciplina di legge riserva agli stessi. L'indagine viene convenientemente incentrata soprattutto sulla fattispecie più problematica sotto il profilo ricostruttivo: la responsabilità nei confronti di chi ritenga di essere stato danneggiato senza essere in relazione contrattuale. Tale studio pone due differenti problemi: il primo si concreta nella necessità di individuare il fondamento della responsabilità nei confronti dei terzi traditi nell'affidamento riposto sulla veridicità e correttezza dei bilanci revisionati; il secondo, ad esso collegato, s'incentra nella necessità di valutare la disciplina in concreto applicabile. Sotto il primo profilo si impone, innanzitutto, una più precisa individuazione dei termini del problema. A tale stregua lo studio sottolinea come la ricerca, finora, sia stata in prevalenza condotta tenendo presente, quale pregiudiziale, la natura meramente "dichiarativa" della norma sulla responsabilità dei revisori, e sulla base di tale premessa si sia di conseguenza orientata l'interpretazione prevalente. Sebbene nel nostro ordinamento, di fronte alla disposizione dell'art. 164 T.u.f. (e dell'art. 2409 sexies c.c.), non si sia mai dubitato circa la configurabilità di una responsabilità del revisore anche nei confronti dei terzi, tuttavia, la dottrina ha sempre negato che tale norma ne costituisse il fondamento. Perciò proprio in questa materia si sono delineati due fondamentali orientamenti: da un lato, si è affermata l'esigenza di ricorrere alla figura dell'illecito civile; dall'altro, si è tentato di giungere ad un sostanziale ampliamento del sistema del contratto. Tale pregiudiziale ha esplicato, in effetti, una duplice influenza, reagendo altresì sull'atteggiarsi del secondo problema, quello del modello di tutela. Così essa ha finito per condurre, in sostanza, a due alternative: o ammettere la risarcibilità in via aquiliana del danno meramente patrimoniale – attraverso l'affermazione della natura di clausola generale del "danno ingiusto" –; o riconoscere l'estensione degli effetti contrattuali al terzo – facendo leva sulle figure del contratto con effetti protettivi del terzo, o a favore del terzo – e allora sostenere l'applicabilità della disciplina di cui agli artt. 1218 ss. c.c. La necessità di una revisione del problema del fondamento sembra tanto più forte, non appena si consideri che pare infondata la premessa stessa dell'impostazione prevalente. Un'impostazione per cui a quella norma si nega un significato veramente autonomo, e si attribuisce soltanto valore di chiarificatore richiamo alla disciplina ordinaria in materia di responsabilità civile. Nella monografia, dopo aver confutato tale premessa – talora acriticamente assunta – viene proposta un'ipotesi di soluzione, che costituisce al tempo stesso chiave di interpretazione ed oggetto di verifica nella fase successiva dell'indagine. Un'ipotesi di soluzione rivolta inoltre a superare i termini del dibattito – finora saldamente ancorato a prospettive meramente "aquiliane" ovvero "contrattuali" – per riportarlo a contenuti più coerenti con l'attuale disposizione codicistica sulla responsabilità del revisore obbligatorio. Non si nasconde, infatti, l'insoddisfazione per quelle impostazioni, specie all'interno della prospettiva aquiliana, che qualificano tout court la disposizione dell'art. 164 T.u.f. come particolare applicazione del rimedio generale della responsabilità civile. Pare mancare qui, o per lo meno non si avverte, la stessa consapevolezza della specificità della fattispecie in esame rispetto ad altre ipotesi di danni in generale e di responsabilità per informazioni inesatte al mercato in particolare. Per contro, è solo in ragione della consapevolezza delle peculiarità che contraddistinguono la responsabilità per danno da revisione, che può correttamente affrontarsi il problema del fondamento giuridico. Sotto questo profilo l'elemento più caratteristico del sistema italiano e che lo colloca in una situazione divergente da quella degli altri ordinamenti esaminati, consiste proprio nella presenza di un'espressa sanzione di responsabilità nei confronti dei terzi. Nella consapevolezza dei limiti di un'indagine basata esclusivamente sul dato positivo, l’indagine si preoccupa però di verificare se la portata della norma debba esaurirsi in una considerazione della specificità della fattispecie oppure non possa fornire indicazioni di più significativa portata. Ne consegue un sostanziale ribaltamento del modo stesso in cui impostare il problema; un cambio di prospettiva che si concreta nella necessità di esaminare la premessa che la specifica disposizione di legge è idonea a giustificare la responsabilità esterna del revisore legale. Ci si propone così di verificare – anche al di là della correttezza di un'interpretazione basata solo ed esclusivamente sul dettato della legge – la possibilità di attribuire alle norme in tema di revisione obbligatoria una vera e propria funzione "istitutiva", idonea a fondare una responsabilità del revisore anche nei confronti dei terzi. Diversamente dall'indirizzo prevalente, si concentra quindi lo sforzo interpretativo proprio sulla disposizione dell'art. 2409 sexies c.c., consapevoli del fatto che, seppure essa rappresenti un punto di riferimento importante da cui muovere, non possa e non debba considerarsi l'unico oggetto di riflessione. Tale linea interpretativa si conferma proficua anche nel raffronto con le esperienze comparate prese in considerazione, dove si percepisce il notevole disagio con cui il problema viene affrontato a causa del conflitto tra la preoccupazione da un lato, di evitare la propagazione della responsabilità verso i terzi dai confini indeterminati, e, dall'altro, di preservare la funzione della responsabilità civile di reprimere e prevenire condotte negligenti idonee a danneggiare i terzi. Tale disagio risulta anzi più chiaro per la mancanza, sia nell'ordinamento inglese che in quello tedesco, di un'espressa sanzione di responsabilità nei confronti dei terzi, e per l'assenza di una norma del tenore dell'art. 2043 c.c.: conseguentemente, e a ragione, in tali paesi il fulcro del problema della responsabilità verso i terzi è stato ravvisato e si è finora sviluppato come ricerca della sua giustificazione sistematica. Impostato così il problema del fondamento giuridico, allora si è dato alla ricerca un taglio diverso: si tratta, a ben vedere, non già di rintracciare le ragioni in base alle quali la società di revisione debba rispondere nei confronti dei soci e dei terzi, ma di enucleare, con riferimento ai risultati così raggiunti, la disciplina cui riportare la responsabilità esterna del revisore, quindi la sua collocazione sistematica. Il discorso viene dunque spostato sul piano funzionale, vale a dire della disciplina applicabile. In tal senso, perciò, la nostra ipotesi di soluzione – che pure viene sottoposta ad una positiva verifica dell'idoneità a fornire una ricostruzione coerente del significato e della rilevanza sistematica della disciplina in esame – permette di individuare i reali contenuti del problema. Essa non solo costituisce la premessa in base alla quale si confida di poter soverchiare il tradizionale dibattito sul fondamento, ma influisce anche sullo specifico profilo della disciplina. Ad essere in discussione è se le specifiche caratteristiche della fattispecie in esame giustifichino l'applicazione degli artt. 1218 ss. c.c. o se, invece, non sia preferibile ricorrere alla disciplina dettata in tema di illecito aquiliano. Preliminare alla proposizione stessa dell'interrogativo, peraltro, è parsa la considerazione che la legge configura la responsabilità verso la società, i soci e i terzi come responsabilità per i danni derivanti dall'inadempimento dei doveri previsti dalla legge a carico del revisore. Anzi, è appena il caso di sottolineare come proprio la formula dell’art. 2409 sexies induca, per una chiara suggestione letterale, ad impostare il discorso in termini di responsabilità di (fonte legale ma di) tipo "contrattuale", anche rispetto ai singoli soci e ai terzi che abbiano subito un danno a seguito della predisposizione e diffusione di un giudizio non corretto, ovvero a causa dell'omissione o negligente esecuzione di controlli in ipotesi dovuti. Si tratta tuttavia di indicazioni testuali che richiedono un'attenta valutazione sulla base di un rigoroso esame dei più rappresentativi orientamenti della dottrina civilistica, con il quale soltanto può cogliersi l'effettivo significato della norma. Si intende far riferimento, tra l'altro, alla nota contrapposizione dottrinale tra responsabilità da lesione, non mediata dalla violazione di obblighi, e responsabilità che discende dall'inadempimento di obbligazioni preesistenti, quale che ne sia la fonte. Categoria, quest'ultima, alla quale andrebbe ricondotta la responsabilità in discorso, là dove si riconosca che essa deriva non dalla violazione del generico precetto del neminem laedere, ma dalla violazione di obblighi (di comportamento) imposti dalla legge specificatamente a carico del revisore o della società di revisione. Vengono coinvolte in tal modo una serie di questioni di carattere generale, che si traducono nell'esigenza di una ricerca volta ad approfondire il significato del supposto collegamento tra inadempimento e disciplina della responsabilità, al fine di rinvenire ulteriori argomenti per affermare l’applicabilità del regime di cui agli artt. 1218 ss. c.c. a tutte le fattispecie considerate. Muovere nell’analisi del fondamento da una prospettiva diversa da quella del contratto non equivale, infatti, ad ascrivere la relativa responsabilità all’ambito extracontrattuale proprio dell’illecito aquiliano: poiché è invece la preesistenza di specifici obblighi a fungere da discrimen ed è quindi alla particolare rilevanza degli stessi che la riflessione deve volgersi. Nell’ultimo capitolo vengono poi considerati i riflessi sistematici ed applicativi della linea interpretativa tesa ad inquadrare la responsabilità di fonte legale dei revisori nell'ambito della disciplina dell'inadempimento dell'obbligazione. Volendo fissare soltanto i principali nuclei problematici esaminati, sono stati anzi tutto accertati gli effettivi rapporti tra l'impostazione aquiliana e l'ottica contrattuale, anche alla luce della tendenza – tutt'altro che indiscussa – che si va manifestando nel diritto civile a favore di una svalutazione delle differenze tra responsabilità contrattuale, legale o extracontrattuale. Invero, seppure il legislatore della riforma neutralizzi a monte una delle differenze ritenute fondamentali tra regime di responsabilità contrattuale ed extracontrattuale, vale a dire il termine di prescrizione, ciò non esime dalla necessità di inquadrare la fattispecie in esame nell'uno o nell'altro alveo della responsabilità civile, al fine di individuare regole capaci di integrare la specifica disciplina, almeno in relazione alle sue inevitabili lacune. A tale stregua si pone al centro della discussione la fondamentale rilevanza della distinzione ai fini della ripartizione dell'onere della prova della colpa. Sotto questo profilo, l'opzione in favore del regime contrattuale è particolarmente pregnante, perché permette di applicare una regola probatoria più favorevole per il terzo. Affermazione quest'ultima, invero non indiscussa, e che viene perciò verificata e confermata sulla base di un esame analitico dei più significativi orientamenti della dottrina civilistica. Infine, sul piano propriamente funzionale, si è verificata la possibilità di accedere ad un modello unitario di responsabilità del revisore obbligatorio, fondato sulla considerazione degli interessi protetti e finalizzato ad orientare in maniera coerente le soluzioni relative ai singoli problemi di disciplina. In conformità con l'impostazione generale del lavoro, dunque, viene posta in rilievo la validità teorica e l'utilità pratica di una ricostruzione unitaria delle fattispecie di responsabilità considerate, che, per contro, continuano a discostarsi in relazione alla diversa area di incidenza del danno. Sotto quest'ultimo profilo si è resa opportuna una separata analisi delle conseguenze pregiudizievoli dell'inadempimento del revisore legale, a seconda che venga danneggiato il patrimonio sociale, ovvero quello dei singoli soci e terzi. Il discorso è quindi spostato, nel quarto capitolo, sui problemi concernenti il danno risarcibile. A tale stregua, il modello di tutela contrattuale proposto è stato anzi tutto coordinato con la disciplina degli artt. 2392 ss. c.c. In particolare, si è avuto modo di mostrare come le norme sulla responsabilità del revisore, rinviando indirettamente all'art. 2395 c.c., siano in grado di incidere sull'interesse ad una limitazione del rischio di generare una responsabilità dai confini indeterminati. Sulla base dei risultati raggiunti vengono poi affrontati i problemi di configurazione del danno da revisione e, quindi, quelli di quantificazione del pregiudizio risarcibile, avendo riguardo al tipico contesto in cui si colloca il problema esaminato.

La responsabilità nella revisione obbligatoria delle s.p.a.

BUTA, Grazia
2005

Abstract

Il problema, cui è dedicata la presente monografia attiene al significato e alle modalità di attuazione della tutela risarcitoria che la disciplina della revisione contabile obbligatoria riserva alla società, ai soci e ai terzi. Un'analisi che da un lato ripercorra le tappe del dibattito sviluppatosi in dottrina al fine di ricostruire il ruolo del revisore nel quadro dei controlli societari, sia dall'altro diretta a chiarire il valore e il significato che assumono le regole che delineano il regime giuridico della responsabilità. Perciò, nel primo capitolo si sottolineano le ragioni alla base della disciplina della responsabilità del revisore. Si richiama soprattutto la necessità di una particolare tutela dei soci o dei terzi investitori, di solito riferita all'affidamento conseguente alla diffusione ed alla pubblicità del giudizio sul bilancio. Individuati gli interessi protetti, l’indagine si occupa di verificare su un piano più specifico l'estensione e le modalità di attuazione della tutela che la disciplina di legge riserva agli stessi. L'indagine viene convenientemente incentrata soprattutto sulla fattispecie più problematica sotto il profilo ricostruttivo: la responsabilità nei confronti di chi ritenga di essere stato danneggiato senza essere in relazione contrattuale. Tale studio pone due differenti problemi: il primo si concreta nella necessità di individuare il fondamento della responsabilità nei confronti dei terzi traditi nell'affidamento riposto sulla veridicità e correttezza dei bilanci revisionati; il secondo, ad esso collegato, s'incentra nella necessità di valutare la disciplina in concreto applicabile. Sotto il primo profilo si impone, innanzitutto, una più precisa individuazione dei termini del problema. A tale stregua lo studio sottolinea come la ricerca, finora, sia stata in prevalenza condotta tenendo presente, quale pregiudiziale, la natura meramente "dichiarativa" della norma sulla responsabilità dei revisori, e sulla base di tale premessa si sia di conseguenza orientata l'interpretazione prevalente. Sebbene nel nostro ordinamento, di fronte alla disposizione dell'art. 164 T.u.f. (e dell'art. 2409 sexies c.c.), non si sia mai dubitato circa la configurabilità di una responsabilità del revisore anche nei confronti dei terzi, tuttavia, la dottrina ha sempre negato che tale norma ne costituisse il fondamento. Perciò proprio in questa materia si sono delineati due fondamentali orientamenti: da un lato, si è affermata l'esigenza di ricorrere alla figura dell'illecito civile; dall'altro, si è tentato di giungere ad un sostanziale ampliamento del sistema del contratto. Tale pregiudiziale ha esplicato, in effetti, una duplice influenza, reagendo altresì sull'atteggiarsi del secondo problema, quello del modello di tutela. Così essa ha finito per condurre, in sostanza, a due alternative: o ammettere la risarcibilità in via aquiliana del danno meramente patrimoniale – attraverso l'affermazione della natura di clausola generale del "danno ingiusto" –; o riconoscere l'estensione degli effetti contrattuali al terzo – facendo leva sulle figure del contratto con effetti protettivi del terzo, o a favore del terzo – e allora sostenere l'applicabilità della disciplina di cui agli artt. 1218 ss. c.c. La necessità di una revisione del problema del fondamento sembra tanto più forte, non appena si consideri che pare infondata la premessa stessa dell'impostazione prevalente. Un'impostazione per cui a quella norma si nega un significato veramente autonomo, e si attribuisce soltanto valore di chiarificatore richiamo alla disciplina ordinaria in materia di responsabilità civile. Nella monografia, dopo aver confutato tale premessa – talora acriticamente assunta – viene proposta un'ipotesi di soluzione, che costituisce al tempo stesso chiave di interpretazione ed oggetto di verifica nella fase successiva dell'indagine. Un'ipotesi di soluzione rivolta inoltre a superare i termini del dibattito – finora saldamente ancorato a prospettive meramente "aquiliane" ovvero "contrattuali" – per riportarlo a contenuti più coerenti con l'attuale disposizione codicistica sulla responsabilità del revisore obbligatorio. Non si nasconde, infatti, l'insoddisfazione per quelle impostazioni, specie all'interno della prospettiva aquiliana, che qualificano tout court la disposizione dell'art. 164 T.u.f. come particolare applicazione del rimedio generale della responsabilità civile. Pare mancare qui, o per lo meno non si avverte, la stessa consapevolezza della specificità della fattispecie in esame rispetto ad altre ipotesi di danni in generale e di responsabilità per informazioni inesatte al mercato in particolare. Per contro, è solo in ragione della consapevolezza delle peculiarità che contraddistinguono la responsabilità per danno da revisione, che può correttamente affrontarsi il problema del fondamento giuridico. Sotto questo profilo l'elemento più caratteristico del sistema italiano e che lo colloca in una situazione divergente da quella degli altri ordinamenti esaminati, consiste proprio nella presenza di un'espressa sanzione di responsabilità nei confronti dei terzi. Nella consapevolezza dei limiti di un'indagine basata esclusivamente sul dato positivo, l’indagine si preoccupa però di verificare se la portata della norma debba esaurirsi in una considerazione della specificità della fattispecie oppure non possa fornire indicazioni di più significativa portata. Ne consegue un sostanziale ribaltamento del modo stesso in cui impostare il problema; un cambio di prospettiva che si concreta nella necessità di esaminare la premessa che la specifica disposizione di legge è idonea a giustificare la responsabilità esterna del revisore legale. Ci si propone così di verificare – anche al di là della correttezza di un'interpretazione basata solo ed esclusivamente sul dettato della legge – la possibilità di attribuire alle norme in tema di revisione obbligatoria una vera e propria funzione "istitutiva", idonea a fondare una responsabilità del revisore anche nei confronti dei terzi. Diversamente dall'indirizzo prevalente, si concentra quindi lo sforzo interpretativo proprio sulla disposizione dell'art. 2409 sexies c.c., consapevoli del fatto che, seppure essa rappresenti un punto di riferimento importante da cui muovere, non possa e non debba considerarsi l'unico oggetto di riflessione. Tale linea interpretativa si conferma proficua anche nel raffronto con le esperienze comparate prese in considerazione, dove si percepisce il notevole disagio con cui il problema viene affrontato a causa del conflitto tra la preoccupazione da un lato, di evitare la propagazione della responsabilità verso i terzi dai confini indeterminati, e, dall'altro, di preservare la funzione della responsabilità civile di reprimere e prevenire condotte negligenti idonee a danneggiare i terzi. Tale disagio risulta anzi più chiaro per la mancanza, sia nell'ordinamento inglese che in quello tedesco, di un'espressa sanzione di responsabilità nei confronti dei terzi, e per l'assenza di una norma del tenore dell'art. 2043 c.c.: conseguentemente, e a ragione, in tali paesi il fulcro del problema della responsabilità verso i terzi è stato ravvisato e si è finora sviluppato come ricerca della sua giustificazione sistematica. Impostato così il problema del fondamento giuridico, allora si è dato alla ricerca un taglio diverso: si tratta, a ben vedere, non già di rintracciare le ragioni in base alle quali la società di revisione debba rispondere nei confronti dei soci e dei terzi, ma di enucleare, con riferimento ai risultati così raggiunti, la disciplina cui riportare la responsabilità esterna del revisore, quindi la sua collocazione sistematica. Il discorso viene dunque spostato sul piano funzionale, vale a dire della disciplina applicabile. In tal senso, perciò, la nostra ipotesi di soluzione – che pure viene sottoposta ad una positiva verifica dell'idoneità a fornire una ricostruzione coerente del significato e della rilevanza sistematica della disciplina in esame – permette di individuare i reali contenuti del problema. Essa non solo costituisce la premessa in base alla quale si confida di poter soverchiare il tradizionale dibattito sul fondamento, ma influisce anche sullo specifico profilo della disciplina. Ad essere in discussione è se le specifiche caratteristiche della fattispecie in esame giustifichino l'applicazione degli artt. 1218 ss. c.c. o se, invece, non sia preferibile ricorrere alla disciplina dettata in tema di illecito aquiliano. Preliminare alla proposizione stessa dell'interrogativo, peraltro, è parsa la considerazione che la legge configura la responsabilità verso la società, i soci e i terzi come responsabilità per i danni derivanti dall'inadempimento dei doveri previsti dalla legge a carico del revisore. Anzi, è appena il caso di sottolineare come proprio la formula dell’art. 2409 sexies induca, per una chiara suggestione letterale, ad impostare il discorso in termini di responsabilità di (fonte legale ma di) tipo "contrattuale", anche rispetto ai singoli soci e ai terzi che abbiano subito un danno a seguito della predisposizione e diffusione di un giudizio non corretto, ovvero a causa dell'omissione o negligente esecuzione di controlli in ipotesi dovuti. Si tratta tuttavia di indicazioni testuali che richiedono un'attenta valutazione sulla base di un rigoroso esame dei più rappresentativi orientamenti della dottrina civilistica, con il quale soltanto può cogliersi l'effettivo significato della norma. Si intende far riferimento, tra l'altro, alla nota contrapposizione dottrinale tra responsabilità da lesione, non mediata dalla violazione di obblighi, e responsabilità che discende dall'inadempimento di obbligazioni preesistenti, quale che ne sia la fonte. Categoria, quest'ultima, alla quale andrebbe ricondotta la responsabilità in discorso, là dove si riconosca che essa deriva non dalla violazione del generico precetto del neminem laedere, ma dalla violazione di obblighi (di comportamento) imposti dalla legge specificatamente a carico del revisore o della società di revisione. Vengono coinvolte in tal modo una serie di questioni di carattere generale, che si traducono nell'esigenza di una ricerca volta ad approfondire il significato del supposto collegamento tra inadempimento e disciplina della responsabilità, al fine di rinvenire ulteriori argomenti per affermare l’applicabilità del regime di cui agli artt. 1218 ss. c.c. a tutte le fattispecie considerate. Muovere nell’analisi del fondamento da una prospettiva diversa da quella del contratto non equivale, infatti, ad ascrivere la relativa responsabilità all’ambito extracontrattuale proprio dell’illecito aquiliano: poiché è invece la preesistenza di specifici obblighi a fungere da discrimen ed è quindi alla particolare rilevanza degli stessi che la riflessione deve volgersi. Nell’ultimo capitolo vengono poi considerati i riflessi sistematici ed applicativi della linea interpretativa tesa ad inquadrare la responsabilità di fonte legale dei revisori nell'ambito della disciplina dell'inadempimento dell'obbligazione. Volendo fissare soltanto i principali nuclei problematici esaminati, sono stati anzi tutto accertati gli effettivi rapporti tra l'impostazione aquiliana e l'ottica contrattuale, anche alla luce della tendenza – tutt'altro che indiscussa – che si va manifestando nel diritto civile a favore di una svalutazione delle differenze tra responsabilità contrattuale, legale o extracontrattuale. Invero, seppure il legislatore della riforma neutralizzi a monte una delle differenze ritenute fondamentali tra regime di responsabilità contrattuale ed extracontrattuale, vale a dire il termine di prescrizione, ciò non esime dalla necessità di inquadrare la fattispecie in esame nell'uno o nell'altro alveo della responsabilità civile, al fine di individuare regole capaci di integrare la specifica disciplina, almeno in relazione alle sue inevitabili lacune. A tale stregua si pone al centro della discussione la fondamentale rilevanza della distinzione ai fini della ripartizione dell'onere della prova della colpa. Sotto questo profilo, l'opzione in favore del regime contrattuale è particolarmente pregnante, perché permette di applicare una regola probatoria più favorevole per il terzo. Affermazione quest'ultima, invero non indiscussa, e che viene perciò verificata e confermata sulla base di un esame analitico dei più significativi orientamenti della dottrina civilistica. Infine, sul piano propriamente funzionale, si è verificata la possibilità di accedere ad un modello unitario di responsabilità del revisore obbligatorio, fondato sulla considerazione degli interessi protetti e finalizzato ad orientare in maniera coerente le soluzioni relative ai singoli problemi di disciplina. In conformità con l'impostazione generale del lavoro, dunque, viene posta in rilievo la validità teorica e l'utilità pratica di una ricostruzione unitaria delle fattispecie di responsabilità considerate, che, per contro, continuano a discostarsi in relazione alla diversa area di incidenza del danno. Sotto quest'ultimo profilo si è resa opportuna una separata analisi delle conseguenze pregiudizievoli dell'inadempimento del revisore legale, a seconda che venga danneggiato il patrimonio sociale, ovvero quello dei singoli soci e terzi. Il discorso è quindi spostato, nel quarto capitolo, sui problemi concernenti il danno risarcibile. A tale stregua, il modello di tutela contrattuale proposto è stato anzi tutto coordinato con la disciplina degli artt. 2392 ss. c.c. In particolare, si è avuto modo di mostrare come le norme sulla responsabilità del revisore, rinviando indirettamente all'art. 2395 c.c., siano in grado di incidere sull'interesse ad una limitazione del rischio di generare una responsabilità dai confini indeterminati. Sulla base dei risultati raggiunti vengono poi affrontati i problemi di configurazione del danno da revisione e, quindi, quelli di quantificazione del pregiudizio risarcibile, avendo riguardo al tipico contesto in cui si colloca il problema esaminato.
2005
88-348-6340-2
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11591/161767
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