Variamente configurato, il fenomeno della c.d. interpretazione abrogante – tradizionalmente ricondotto alla massima cessante ratione legis cessat et ipsa lex – non trova univoca definizione. Nella civilistica italiana tra la fine dell’ottocento e gli inizi dello scorso secolo la massima è generalmente configurata quale regola dell’interpretazione restrittiva; designata ora quale esito dell’attività interpretativa consistente nel diniego di qualsiasi significato precettivo di un enunciato normativo, ora annoverata tra i criteri di risoluzione delle antinomie che sopravvivono alla operatività dei criteri preordinati dall’ordinamento, nel pensiero bettiano la figura in esame è significativamente rappresentata quale estremo risultato dell’attività ermeneutica volta a conformare la portata normativa di un enunciato alla sua ratio. L’ipotesi di una interpretatio abrogans appare dunque strettamente correlata con la nozione di ratio legis, intesa quale parametro di verifica della perdurante adeguatezza della lettera della legge, a fronte di sopravvenuti mutamenti legislativi e sociali. La connotazione dell’interpretazione come abrogante genera, immediato, il richiamo al fenomeno dell’abrogazione delle leggi, determinando confusione in ordine ai fenomeni riconducibili alla massima cessante ratione legis da un lato, ed alla abrogazione (specie quella implicita) dall’altro. Si prospetta, pertanto, opportuna una distinzione, quantomeno concettuale, della figura in esame rispetto ad operazioni ermeneutiche che conducono a medesimi esiti sostanziali. L’abrogazione tacita rappresenta un fenomeno intimamente correlato all’evoluzione dell’ordinamento; correttamente intesa quale «funzione dell’interpretazione» e ricondotta sul piano dei risultati interpretativi, tale forma di abrogazione sembrerebbe contenere interamente l’àmbito di operatività proprio della c.d. interpretazione abrogante: ogni ipotesi di (sopravvenuta) carenza di ratio resterebbe priva di una propria specificità concettuale, inevitabilmente assorbita nella abrogazione implicita. Appare, tuttavia, possibile isolare, almeno concettualmente, i fenomeni, i quali, pur conducendo al medesimo esito sostanziale – la disapplicazione della norma limitatamente al singolo caso – appaiono fondati su presupposti distinti, pur osservando come i fenomeni, teoricamente distinti, si presentino, di norma, connessi. La distinzione concettuale tra i fenomeni consente di ravvisarne i differenti presupposti giustificativi, persino in alcune decisioni nelle quali essi sembrano volutamente assimilati in ordine ai concreti esiti applicativi. La identificazione della c.d. interpretatio abrogans con il risultato interpretativo consistente nella riduzione totale o parziale del significato normativo attribuibile ad una disposizione – rispetto all’estensione della stessa intesa secondo la sua lettera – rivela la sua validità proprio riguardo agli esempi nei quali un tale esito acquista maggiore evidenza rispetto alle cause dalle quali deriva. Quale fenomeno attinente alla ratio legis, esso presenta una necessaria intersezione con la questione relativa alla legittimità della legge sotto il profilo della ragionevolezza. La progressiva, decisa affermazione della doverosità della c.d. interpretazione adeguatrice da parte del giudice a quo, quale condizione necessaria per la proposizione della questione di legittimità costituzionale, e la conseguente, progressiva tendenza alla compenetrazione tra sindacato accentrato e sindacato c.d. diffuso, comporta un radicale mutamento del ruolo della magistratura ordinaria, chiamata al doveroso compito di verificare la possibilità di una interpretazione conforme a Costituzione e di preferire, tra piú interpretazioni possibili, quella costituzionalmente legittima. L’affermazione del dovere di ciascun operatore di attuare la legalità costituzionale attraverso la diretta applicazione della norma costituzionale pone, inevitabilmente, la questione relativa all’individuazione del limite dell’interpretazione adeguatrice, della linea di demarcazione, cioè, tra i compiti demandati al giudice ordinario e le funzioni proprie della Consulta, specie nei casi in cui l’interprete riscontri una incongruenza tra la norma ed il concreto caso da decidere, tale da rendere necessaria non già la sola riduzione della portata applicativa di quest’ultima, ma la eliminazione di ogni contenuto normativo potenzialmente espresso dall’enunciato normativo e, al contempo, potenzialmente applicabile. Dal rilievo di numerose ipotesi di disapplicazione da parte del giudice comune si trae argomento per sostenere che l’introduzione di significativi elementi di diffusione nel sistema di controllo della costituzionalità delle leggi avrebbe comportato una ridefinizione del ruolo del giudice comune: la tendenza evolutiva della giurisprudenza costituzionale negli ultimi anni sembrerebbe condurre verso una maggiore responsabilizzazione del giudice ordinario, investito di rilevanti poteri interpretativi che, di là dal dato estrinseco, rappresentato dalla permanenza del dato testuale invariato, costituiscono strumenti profondamente incidenti sulla sostanza normativa. Significativa, in proposito, la giurisprudenza della Corte costituzionale relativa alla illegittimità per irragionevolezza, intesa quale incoerenza della singola legge e del sistema nel suo complesso. La innegabile tendenza verso una sempre maggiore compenetrazione tra sindacato accentrato e diffuso sembra, dunque, rendere gli stessi confini tra le operazioni ermeneutiche dagli esiti sostanziali analoghi sfumati, configurandoli quali strumenti ermeneutici dei quali l’interprete può, alternativamente, servirsi nell’attuazione della legalità costituzionale.

Interpretazione abrogante, abrogazione tacita e incostituzionalità per irragionevolezza

DE OTO, Valeria
2006

Abstract

Variamente configurato, il fenomeno della c.d. interpretazione abrogante – tradizionalmente ricondotto alla massima cessante ratione legis cessat et ipsa lex – non trova univoca definizione. Nella civilistica italiana tra la fine dell’ottocento e gli inizi dello scorso secolo la massima è generalmente configurata quale regola dell’interpretazione restrittiva; designata ora quale esito dell’attività interpretativa consistente nel diniego di qualsiasi significato precettivo di un enunciato normativo, ora annoverata tra i criteri di risoluzione delle antinomie che sopravvivono alla operatività dei criteri preordinati dall’ordinamento, nel pensiero bettiano la figura in esame è significativamente rappresentata quale estremo risultato dell’attività ermeneutica volta a conformare la portata normativa di un enunciato alla sua ratio. L’ipotesi di una interpretatio abrogans appare dunque strettamente correlata con la nozione di ratio legis, intesa quale parametro di verifica della perdurante adeguatezza della lettera della legge, a fronte di sopravvenuti mutamenti legislativi e sociali. La connotazione dell’interpretazione come abrogante genera, immediato, il richiamo al fenomeno dell’abrogazione delle leggi, determinando confusione in ordine ai fenomeni riconducibili alla massima cessante ratione legis da un lato, ed alla abrogazione (specie quella implicita) dall’altro. Si prospetta, pertanto, opportuna una distinzione, quantomeno concettuale, della figura in esame rispetto ad operazioni ermeneutiche che conducono a medesimi esiti sostanziali. L’abrogazione tacita rappresenta un fenomeno intimamente correlato all’evoluzione dell’ordinamento; correttamente intesa quale «funzione dell’interpretazione» e ricondotta sul piano dei risultati interpretativi, tale forma di abrogazione sembrerebbe contenere interamente l’àmbito di operatività proprio della c.d. interpretazione abrogante: ogni ipotesi di (sopravvenuta) carenza di ratio resterebbe priva di una propria specificità concettuale, inevitabilmente assorbita nella abrogazione implicita. Appare, tuttavia, possibile isolare, almeno concettualmente, i fenomeni, i quali, pur conducendo al medesimo esito sostanziale – la disapplicazione della norma limitatamente al singolo caso – appaiono fondati su presupposti distinti, pur osservando come i fenomeni, teoricamente distinti, si presentino, di norma, connessi. La distinzione concettuale tra i fenomeni consente di ravvisarne i differenti presupposti giustificativi, persino in alcune decisioni nelle quali essi sembrano volutamente assimilati in ordine ai concreti esiti applicativi. La identificazione della c.d. interpretatio abrogans con il risultato interpretativo consistente nella riduzione totale o parziale del significato normativo attribuibile ad una disposizione – rispetto all’estensione della stessa intesa secondo la sua lettera – rivela la sua validità proprio riguardo agli esempi nei quali un tale esito acquista maggiore evidenza rispetto alle cause dalle quali deriva. Quale fenomeno attinente alla ratio legis, esso presenta una necessaria intersezione con la questione relativa alla legittimità della legge sotto il profilo della ragionevolezza. La progressiva, decisa affermazione della doverosità della c.d. interpretazione adeguatrice da parte del giudice a quo, quale condizione necessaria per la proposizione della questione di legittimità costituzionale, e la conseguente, progressiva tendenza alla compenetrazione tra sindacato accentrato e sindacato c.d. diffuso, comporta un radicale mutamento del ruolo della magistratura ordinaria, chiamata al doveroso compito di verificare la possibilità di una interpretazione conforme a Costituzione e di preferire, tra piú interpretazioni possibili, quella costituzionalmente legittima. L’affermazione del dovere di ciascun operatore di attuare la legalità costituzionale attraverso la diretta applicazione della norma costituzionale pone, inevitabilmente, la questione relativa all’individuazione del limite dell’interpretazione adeguatrice, della linea di demarcazione, cioè, tra i compiti demandati al giudice ordinario e le funzioni proprie della Consulta, specie nei casi in cui l’interprete riscontri una incongruenza tra la norma ed il concreto caso da decidere, tale da rendere necessaria non già la sola riduzione della portata applicativa di quest’ultima, ma la eliminazione di ogni contenuto normativo potenzialmente espresso dall’enunciato normativo e, al contempo, potenzialmente applicabile. Dal rilievo di numerose ipotesi di disapplicazione da parte del giudice comune si trae argomento per sostenere che l’introduzione di significativi elementi di diffusione nel sistema di controllo della costituzionalità delle leggi avrebbe comportato una ridefinizione del ruolo del giudice comune: la tendenza evolutiva della giurisprudenza costituzionale negli ultimi anni sembrerebbe condurre verso una maggiore responsabilizzazione del giudice ordinario, investito di rilevanti poteri interpretativi che, di là dal dato estrinseco, rappresentato dalla permanenza del dato testuale invariato, costituiscono strumenti profondamente incidenti sulla sostanza normativa. Significativa, in proposito, la giurisprudenza della Corte costituzionale relativa alla illegittimità per irragionevolezza, intesa quale incoerenza della singola legge e del sistema nel suo complesso. La innegabile tendenza verso una sempre maggiore compenetrazione tra sindacato accentrato e diffuso sembra, dunque, rendere gli stessi confini tra le operazioni ermeneutiche dagli esiti sostanziali analoghi sfumati, configurandoli quali strumenti ermeneutici dei quali l’interprete può, alternativamente, servirsi nell’attuazione della legalità costituzionale.
2006
DE OTO, Valeria
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11591/218174
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