Quale principio fondamentale nonché «valore comune» dell’Unione, la parità uomo–donna rappresenta la condizione necessaria per il raggiungimento degli obiettivi comunitari di crescita, occupazione, coesione sociale. Alla crescente partecipazione femminile all’attività sportiva nonché alla progressiva affermazione della figura della donna–atleta, fanno, tuttavia, ancora riscontro forti differenziazioni di genere. Sotto molteplici profili le pari opportunità non sembrano effettivamente attuate: il problema di maggiore evidenza per quanto attiene alla differenziazione di genere nell’àmbito sportivo è rappresentato dall’applicazione della l. n. 91 del 1981 che in Italia regola il professionismo sportivo. In tutti i casi di c.d. professionismo di fatto, gli atleti, che pur svolgono attività sportiva a titolo oneroso e con il carattere della continuità, sono esclusi dalle tutele approntate dalla legge. A differenza del lavoratore sportivo professionista, il lavoratore dilettante non è giuridicamente inquadrato nel diritto del lavoro. La dottrina evidenzia, pertanto, un preoccupante quanto ingiustificato vuoto di tutela, fondato non già sulla base di reali differenze relative al concreto atteggiarsi dell’attività sportiva, ma unicamente su presupposti di natura formale. L’effetto discriminatorio generato tanto dalla scelta legislativa quanto dalle concrete modalità con le quali le Federazioni assolvono il compito ad esse demandato, appare palese nella constatazione della notevole disparità di trattamento dell’atleta donna che, pur svolgendo attività sostanzialmente omogenea a quella degli atleti professionisti (uomini), non è ammessa a godere delle forme di tutela previste dalla legge, in palese violazione del principio di eguaglianza. La questione involge l’ampio dibattito incentrato sul problematico assetto dei rapporti tra ordinamenti, all’interno del quale sembra prevalere l’orientamento volto a sottolineare la derivatività dell’ordinamento sportivo dall’ordinamento statale.La rilevata carenza di tutela nell’àmbito del c.d. ordinamento sportivo potrebbe, in tale ottica, trovare rimedio nella riqualificazione del rapporto intercorrente tra le parti. Uno spunto ricostruttivo in tal senso si ravvisa nella giurisprudenza, sia di merito che di legittimità, la quale disattende la qualificazione attribuita dalle parti al rapporto di lavoro, adottando un criterio non già formale, ma valutando la prestazione lavorativa concretamente svolta.

La figura femminile nello sport. L’incompiuto cammino verso l’eguaglianza di genere

DE OTO, Valeria
2014

Abstract

Quale principio fondamentale nonché «valore comune» dell’Unione, la parità uomo–donna rappresenta la condizione necessaria per il raggiungimento degli obiettivi comunitari di crescita, occupazione, coesione sociale. Alla crescente partecipazione femminile all’attività sportiva nonché alla progressiva affermazione della figura della donna–atleta, fanno, tuttavia, ancora riscontro forti differenziazioni di genere. Sotto molteplici profili le pari opportunità non sembrano effettivamente attuate: il problema di maggiore evidenza per quanto attiene alla differenziazione di genere nell’àmbito sportivo è rappresentato dall’applicazione della l. n. 91 del 1981 che in Italia regola il professionismo sportivo. In tutti i casi di c.d. professionismo di fatto, gli atleti, che pur svolgono attività sportiva a titolo oneroso e con il carattere della continuità, sono esclusi dalle tutele approntate dalla legge. A differenza del lavoratore sportivo professionista, il lavoratore dilettante non è giuridicamente inquadrato nel diritto del lavoro. La dottrina evidenzia, pertanto, un preoccupante quanto ingiustificato vuoto di tutela, fondato non già sulla base di reali differenze relative al concreto atteggiarsi dell’attività sportiva, ma unicamente su presupposti di natura formale. L’effetto discriminatorio generato tanto dalla scelta legislativa quanto dalle concrete modalità con le quali le Federazioni assolvono il compito ad esse demandato, appare palese nella constatazione della notevole disparità di trattamento dell’atleta donna che, pur svolgendo attività sostanzialmente omogenea a quella degli atleti professionisti (uomini), non è ammessa a godere delle forme di tutela previste dalla legge, in palese violazione del principio di eguaglianza. La questione involge l’ampio dibattito incentrato sul problematico assetto dei rapporti tra ordinamenti, all’interno del quale sembra prevalere l’orientamento volto a sottolineare la derivatività dell’ordinamento sportivo dall’ordinamento statale.La rilevata carenza di tutela nell’àmbito del c.d. ordinamento sportivo potrebbe, in tale ottica, trovare rimedio nella riqualificazione del rapporto intercorrente tra le parti. Uno spunto ricostruttivo in tal senso si ravvisa nella giurisprudenza, sia di merito che di legittimità, la quale disattende la qualificazione attribuita dalle parti al rapporto di lavoro, adottando un criterio non già formale, ma valutando la prestazione lavorativa concretamente svolta.
2014
DE OTO, Valeria
File in questo prodotto:
Non ci sono file associati a questo prodotto.

I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.

Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11591/179453
Citazioni
  • ???jsp.display-item.citation.pmc??? ND
  • Scopus ND
  • ???jsp.display-item.citation.isi??? ND
social impact