Il divario che nell’esperienza giuridica ricorrentemente si propone tra il mero livello della prassi e quello della riflessione e della sistemazione entro un contesto ordinamentale trova nella vicenda storica delle rappresaglie un margine quanto mai proficuo di attestazione. Le rappresaglie erano abbandonate nell’esecuzione ai privati cittadini e, in quanto tali, apparivano connotate da una naturale molla istintiva: ‘irrationabilis’ e, in quanto tale, da respingere. E pur tuttavia, era proprio il frequente ricorrere di quel comportamento nella prassi a segnalarne un’indiscutibile efficacia peculiare tale da sollecitare pressanti interrogativi in tema di validità, con ciò stesso postulando l’intervento dell’autorità, che non poteva plausibilmente restare indifferente innanzi ad un fenomeno di così incisiva portata sociale ed economica, oltre che, evidentemente, politica. Per questa ragione iniziarono ad essere ‘disciplinate’ con norme generali, sanzionate dapprima dalla consuetudine, poi dalle leggi, per impedire che il diritto stesso divenisse, nella sua applicazione, più ingiusto e causa di maggiori danni di quanto non fosse già di per sé. La diffusione di questo ‘strumento’, ed i problemi ad esso correlati, suscitano l’interesse di trattatisti che, già dalla seconda metà del secolo XIII, cercano, attraverso scritti rudimentali e frammentari, di esaminare il fenomeno. A tal punto, però, la scientia iuris che in una prima fase si era sostanzialmente disinteressata del fenomeno, proprio per averne ritenuto non razionale il fondamento, prospettava come ineludibile la pretesa di avocare la competenza nel ‘definire’ l’istituto e ‘traghettarlo’ così verso una nuova dignità. A seguito di questa operazione ‘salvifica’, quel comportamento, già reputato ‘irrationabilis’, laddove realizzato entro gli schemi predisposti dalla stessa dottrina che, invero, ne aveva fatto ‘mirabile’ cernita dalla prassi, si convertiva in ius. L’effetto dell’operazione era, a ben vedere, molteplice. Ad un sostanziale depotenziamento della prassi, ora ritenuta legittima solo se realizzatasi conformemente al modello preordinato dalla dottrina, corrispondeva di pari passo un significativo accreditamento della procedura in una prospettiva che vedeva sistematicamente coinvolto il potere politico. Ciò invero si traduceva in una accresciuta efficacia ‘intimidatrice’ della previsione di applicare rappresaglie. Scaturiva da ciò una generale spinta nei vari ordinamenti a dettagliare le garanzie procedurali secondo cui si sarebbe realizzato il procedimento, ma esse erano elaborate alla stregua di criteri univoci o, tendenzialmente tali, che solo i doctores iuris, per la loro asserita estraneità agli interessi specifici, erano in grado di apprestare. Ed era appunto sotto questo profilo che, in una chiave tutt’altro che schiva da interessi, si chiedeva proprio alla sapienza del dottore di giustificare ‘razionalmente’ le cause di esenzione soggettiva ed obiettiva dalle rappresaglie.

L’Istituto della rappresaglia. 'Materia frequens et quotidiana'. Edizione critica di Adolfo Pannone Il capitale fiorentino a Napoli al tempo degli angioini

TISCI, Antonio
2011

Abstract

Il divario che nell’esperienza giuridica ricorrentemente si propone tra il mero livello della prassi e quello della riflessione e della sistemazione entro un contesto ordinamentale trova nella vicenda storica delle rappresaglie un margine quanto mai proficuo di attestazione. Le rappresaglie erano abbandonate nell’esecuzione ai privati cittadini e, in quanto tali, apparivano connotate da una naturale molla istintiva: ‘irrationabilis’ e, in quanto tale, da respingere. E pur tuttavia, era proprio il frequente ricorrere di quel comportamento nella prassi a segnalarne un’indiscutibile efficacia peculiare tale da sollecitare pressanti interrogativi in tema di validità, con ciò stesso postulando l’intervento dell’autorità, che non poteva plausibilmente restare indifferente innanzi ad un fenomeno di così incisiva portata sociale ed economica, oltre che, evidentemente, politica. Per questa ragione iniziarono ad essere ‘disciplinate’ con norme generali, sanzionate dapprima dalla consuetudine, poi dalle leggi, per impedire che il diritto stesso divenisse, nella sua applicazione, più ingiusto e causa di maggiori danni di quanto non fosse già di per sé. La diffusione di questo ‘strumento’, ed i problemi ad esso correlati, suscitano l’interesse di trattatisti che, già dalla seconda metà del secolo XIII, cercano, attraverso scritti rudimentali e frammentari, di esaminare il fenomeno. A tal punto, però, la scientia iuris che in una prima fase si era sostanzialmente disinteressata del fenomeno, proprio per averne ritenuto non razionale il fondamento, prospettava come ineludibile la pretesa di avocare la competenza nel ‘definire’ l’istituto e ‘traghettarlo’ così verso una nuova dignità. A seguito di questa operazione ‘salvifica’, quel comportamento, già reputato ‘irrationabilis’, laddove realizzato entro gli schemi predisposti dalla stessa dottrina che, invero, ne aveva fatto ‘mirabile’ cernita dalla prassi, si convertiva in ius. L’effetto dell’operazione era, a ben vedere, molteplice. Ad un sostanziale depotenziamento della prassi, ora ritenuta legittima solo se realizzatasi conformemente al modello preordinato dalla dottrina, corrispondeva di pari passo un significativo accreditamento della procedura in una prospettiva che vedeva sistematicamente coinvolto il potere politico. Ciò invero si traduceva in una accresciuta efficacia ‘intimidatrice’ della previsione di applicare rappresaglie. Scaturiva da ciò una generale spinta nei vari ordinamenti a dettagliare le garanzie procedurali secondo cui si sarebbe realizzato il procedimento, ma esse erano elaborate alla stregua di criteri univoci o, tendenzialmente tali, che solo i doctores iuris, per la loro asserita estraneità agli interessi specifici, erano in grado di apprestare. Ed era appunto sotto questo profilo che, in una chiave tutt’altro che schiva da interessi, si chiedeva proprio alla sapienza del dottore di giustificare ‘razionalmente’ le cause di esenzione soggettiva ed obiettiva dalle rappresaglie.
2011
978-88-7607-087-7
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11591/158958
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